Il patto siglato dal Governo con Arcelor Mittal aggrava nel complesso la situazione, ma sopratutto traccia un futuro incerto per la città pugliese
Ilva. Taranto. Il caso è chiuso. È chiuso il contratto di concessione della più grande, e inquinante, acciaieria italiana, con un accordo che ai tarantini non è andato giù, al punto che sono immediatamente scesi in piazza. Alle promesse di riduzione dell’impatto ambientale, se non della chiusura, infatti, il Governo ha fatto seguire un sostanziale proseguimento delle attività in un contesto di continuità con le politiche dei governi precedenti, se non peggio. Certo l’equazione da risolvere nel caso Ilva è complessa. Da un lato c’è l’economia, con i circa 11.000 dipendenti dell’acciaieria, dall’altro c’è la contabilità dell’inquinamento. Taranto è la città con la più bassa aspettativa di vita della Regione -mentre in passato era quella che aveva la aveva più alta – e con un 54% in più di tumori infantili rispetto al resto della Puglia. Ogni anno, inoltre, a oltre 1.000 tarantini viene diagnosticato un tumore, tra i due e i tre al giorno.
Una tenaglia nella quale i tarantini vivono da quando sono emersi i dati sanitari relativi agli stabilimenti e che spesso, troppo spesso, si sono voluti negare. Taranto è l’emblema di un paradigma molte volte negato in Italia. Quello della contrapposizione tra ambiente e salute che è stato “risolto” spesso per via indiretta e non per una maggiore repressione dell’inquinamento. L’Acna di Cengio, la Caffaro di Brescia, la Snia di Colleferro nella Valle del Sacco, la Stoppani di Genova e l’Eternit di Casale Monferrato, solo per citarne alcune, sono realtà produttive che hanno finito d’inquinare attivamente, visto che in molti casi le bonifiche sono ancora da fare, per una sostanziale vetustà industriale o di mercato. Ossia hanno chiuso, non sono state chiuse per inquinamento.
Molti altri impianti ad alto impatto ambientale, come il polo chimico di Priolo o le raffinerie della Sardegna, invece, sono tuttora in funzione, ma si stanno adeguando al cambiamenti della legislazione ambientale che è avvenuto negli ultimi trenta anni, eccetto uno: l’Ilva di Taranto. Sono innumerevoli, infatti, i decreti “salva Ilva” che si sono susseguiti negli anni, per consentire all’acciaieria di proseguire la produzione con aggiustamenti minimi sul fronte ambientale, mentre la legislatura nazionale progrediva.
Una storia fatta di decreti “salva Ilva”. Ben 12 in 6 anni
Dal 2012 a oggi sono circa dodici i decreti “salva Ilva”. Ma nel 2010 l’allora ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, sospese, per due anni, il limite del benzo(a)pirene, sostanza inquinate che è stata tra le prime ad essere considerata cancerogena, perché a Taranto nel quartiere Tamburi si era sforato il limite e secondo l’Arpa la responsabilità era della cokeria dell’Ilva. Da allora è stato un susseguirsi di provvedimenti simili, ma vediamo ora cosa c’è nel provvedimento deciso dal Governo, tenendo conto che gli allegati industriali e ambientali al momento della chiusura dell’articolo sono secretati, fatto questo che in una vertenza delicata come questa non dovrebbe accadere.
Alessandro Marescotti: Ecco perché è un accordo peggiorativo
Quello attuale, secondo Alessandro Marescotti, ambientalista storico di Peacelink, sarebbe un accordo peggiorativo sul fronte ambientale perché: «per aumentare la produzione, Arcelor Mittal (la compagnia indiana che gestirà l’Ilva) non deve prima adempiere a tutte le prescrizioni per la messa a norma degli impianti. Basta che dimostri – con stime puramente virtuali – che le emissioni convogliate risultino non aumentare all’aumento della produzione».