Qualche giorno fa un post su LinkedIn a cura di Osvaldo Danzi (questo) ha colpito la mia attenzione. Il titolo era “La grande balla del mismatching” e, partendo da un articolo de Il Post (questo) sull’annosa questione dei datori di lavoro che non trovano lavoratori, cercava di andare sotto la superficie di questo amaro leitmotiv della mancanza d’incontro tra domanda e offerta di occupazione.
Cosa c’è dietro questi profili che non si trovano?
La lettura di Danzi è lucida: molti sono junior, altri sono profili tecnici o legati alla manovalanza, altri ancora sono di settori stagionali. Il fil rouge che li lega sembrerebbe un trattamento economico spesso non equo e condizioni di lavoro provanti. “Inutile ora, piangere sui giornali che si sarebbe disposti a pagare cifre “astronomiche” se per anni si è contribuito a massacrare settori interi.” Riassume in poche parole Danzi. Da persona che lavora da anni nell’orientamento e formazione ho voluto anche io fare un passo indietro per chiedermi: ma perché con tutte le informazioni che abbiamo a disposizione ora, siamo a questo punto?
Orientamento professionale e cultura del lavoro
La risposta dettagliata prenderebbe ben più di quest’articolo ma cerco di farla stare in due parole: orientamento professionale e cultura del lavoro. L’Italia cresce poco e male, per carità possiamo sempre guardare a chi sta peggio di noi, ma la nostra situazione è stagnante negli stipendi e nella produttività all’inizio degli anni 2000, più di vent’anni fa. La “produttività” termine che, riassunto in poco, indica il rapporto tra costi, risorse investimenti utilizzati in produzione e i risultati prodotti, ha in sé tanto del mercato di riferimento: dal progresso tecnico, al momento storico, al costo del lavoro, la qualità della distribuzione, lo stato dell’economia e il capitale umano.
L’importanza del capitale umano
Concentrandomi su quest’ultimo, una frase mi è venuta in mentre mentre pensavo a quest’articolo è “Lo stiamo sprecando.” Sprecando perché le persone in età da lavoro diminuiscono causa della denatalità, costano di più i senior che spesso sono meno produttivi nella fase finale della propria carriera mentre i giovani fino alla middle seniority faticano ad arrivare ad una vera e propria autonomia economica. Le competenze che servono in Italia mancano perché di orientamento si ragiona sempre poco. L’istruzione, che rappresenta la risorsa centrale per permettere progresso e riduzione delle disuguaglianze, ancora porta avanti la distinzione della Riforma Gentile tra formazione tecnica e liceale, sminuendo il valore della prima a supporto della seconda, appannaggio della classe dirigenziale. Ma è proprio così?
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C’è fame di ruoli tecnici
Le disuguaglianze continuano anche oggi senza sosta. Mi ha rivelato una mamma in un messaggio privato sui social che gli insegnanti presentano gli istituti tecnici come soluzione per chi “non ha voglia di studiare”. Per non parlare degli ITS – acronimo che sta per Istituti Tecnici Superiori – percorsi post diploma ad alta specializzazione, ancora sconosciuti ai più, sebbene assicurino tassi di inserimento al lavoro superiori all’85%. Della necessità dei laureati STEM si sente ormai quasi ogni giorno: ma perché non viene sottolineata anche la necessità dei ruoli tecnici che appunto escono dagli ITS?
Si dimentica infatti che l’Italia ha una decisa vocazione manifatturiera con un tessuto produttivo basato su PMI: dagli ultimi dati ISTAT, le imprese con meno di 250 dipendenti sono la quasi totalità delle aziende italiane. Gli occupati nelle PMI, comprese le micro, sono circa il 76,5% del totale dei lavoratori. Aziende di piccole dimensioni molto spesso con una classe dirigenziale limitata e con processi di innovazione spesso ineguali.
A livello di digitalizzazione, l’indice DESI europeo ci pone al 18° posto con una migliore resa nell’ambito dell’integrazione delle tecnologie digitali e connettività ma con ancora molto da fare nell’ambito delle competenze digitali, dove l’Italia si colloca al 25º posto su 27 paesi dell’UE. Solo il 46 % delle persone possiede perlomeno competenze digitali di base, un dato al di sotto della media UE pari al 54 %.
Anche le imprese investono poco
Parallelamente solo il 15% delle imprese italiane eroga ai propri dipendenti formazione in materia di competenze digitali, cinque punti percentuali al di sotto della media UE. Le prestazioni dell’Italia sono più vicine alla media UE per quanto riguarda la presenza delle donne nel settore digitale: gli specialisti digitali, IT e tech di sesso femminile rappresentano il 16 % degli specialisti totali, rispetto a una media UE del 19 %.
Un migliore orientamento quindi non solo dà la spinta al progresso con le competenze che servono ma limita anche la dispersione di risorse quando si fanno scelte universitarie infruttuose. Secondo le ultime rilevazioni Almalaurea, il 40% dei laureati triennali ad un anno dalla laurea infatti non è soddisfatto di come la laurea lo ha aiutato a trovare lavoro.
Non vogliamo conoscere il mercato del lavoro e allo stesso tempo lo viviamo come se fossero gli anni ’60 e il Paese in crescita: un ricordo, ormai dei nostri genitori o nonni, quando il lavoro “accadeva” e le carriere erano lineari, gli stipendi quasi dei vitalizi, dalla fine degli studi alla pensione. Attualmente non solo il lavoro non accade ma si è fatto molto più competitivo come richieste da entrambe le parti. Da un lato, se cerchiamo il lavoro “comodo” dove non impegnarci, non formarci, fare il minimo indispensabile per poi trovare la nostra vita altrove, purtroppo il rischio di sostituzione è alto come quello di avere condizioni inadeguate.
Dall’altra, il lavoratore oggi sceglie ed è pronto a non giungere a patti se il gioco, o meglio il trattamento economico, non vale la candela e dunque i suoi sforzi. Il cuneo fiscale non certo aiuta ma anche l’abuso di istituzione come quella dello stage ha permesso di avere manodopera a basso costo, negando tutele dalla malattia alla previdenza. Riprendendo il post di Danzi, “se le offerte delle imprese italiane sono inadatte a permettere una qualità della vita a dir poco sufficiente” scelgono pure Paesi del Nord europa o altrove, pur consapevoli dei costi, affettivi, emotivi e psicologici che un trasferimento può avere. Il panorama italiano fortunatamente non è tutto di aziende che sfruttano: impariamo a dar voce e a prendere esempio da queste realtà.