L’osservatorio Aub, promosso da Aidaf, UniCredit e Bocconi, evidenzia per le imprese familiari un tasso di crescita dei ricavi di quasi il 22% nel 2021. StartupItalia ha parlato di passato, presente e futuro con tre importanti realtà italiane
Rappresentano il 65% del totale delle società italiane e alcune di loro sono tra le imprese attive più antiche al mondo. Le aziende familiari del nostro Paese raccontano storie di mestieri tramandati di generazione in generazione, di legame con la propria terra e, spesso, di sintesi fra tradizione e innovazione. Disseminate lungo lo stivale, sono 11.635 le attività nelle quali collaborano in maniera continuativa il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo.
L’ultima edizione dell’osservatorio Aub – Aidaf, l’associazione italiana delle aziende familiari, UniCredit e Bocconi -, ha fornito una dettagliata fotografia, approfondendo l’andamento economico e la composizione della governance delle realtà familiari con fatturato superiore a 20 milioni di euro.
Ricavi in crescita e più occupazione
Le performance di 8.589 aziende familiari analizzate nella ricerca dell’osservatorio Aub – che non tiene conto delle controllate da gruppi monobusiness e delle capogruppo nel caso di gruppi multibusiness – sottolineano come il 2021 sia stato l’anno del grande recupero dopo la crisi del 2020 dovuta alla pandemia, con un tasso di crescita dei ricavi del 21,9%, il più alto dell’ultimo decennio. Una tendenza che si è confermata, nel caso delle società quotate, anche nel secondo semestre del 2022. Spiccano i settori legati ai prodotti in metallo, gomma e plastica, chimico, mobile e arredo, con i tassi di crescita dei ricavi più alti. Ai loro opposti, con i tassi più bassi, la moda, il farmaceutico e la meccanica.
“Dall’osservatorio emerge come le aziende familiari abbiano superato la crisi Covid meglio delle altre”, afferma Francesco Casoli, presidente del gruppo marchigiano Elica e di Aidaf. “Si sono rivelate più pronte e più attrezzate di fronte a un evento imprevedibile, come quello pandemico. Ma non è un caso: è il frutto di un percorso virtuoso, iniziato anni fa, con un’attenzione rinnovata verso i passaggi generazionali, preparati nel modo migliore, e con una gestione oculata delle risorse”.
Ad aumentare è anche la redditività netta delle aziende familiari. In media, l’indice Roe, che indica il rendimento dell’investimento nell’impresa, si attesta nel 2021 al 13,6%, un valore superiore al 13,0% del 2019. Tra i risultati, l’osservatorio pone l’accento sulle prestazioni di alcune regioni del Meridione, Calabria, Campania e Sicilia. “Il Sud sta cambiando velocemente e l’opportunità storica del Pnrr è un treno da non perdere”, sottolinea Casoli. “Da presidente Aidaf ho potuto conoscere molte realtà radicate nel Mezzogiorno e ho imparato la differenza tra la narrazione e la realtà”.
“Stiamo lavorando a un disegno di legge per garantire la presenza di almeno un under 40 nei cda delle aziende familiari associate”
Fra i grandi vantaggi di avere realtà imprenditoriali e industriali in salute e attente al rinnovamento, dice il presidente di Aidaf, c’è la possibilità di ridurre la fuga dei talenti dalle regioni del Sud e non solo. “I giovani stanno tornando e le aziende del Meridione sono pronte e in grado di accoglierli. Senza idee fresche non andremo da nessuna parte”. Un tema, quello dell’esodo dei giovani, che riguarda tutto il Paese e “tutte le aziende familiari. Come Aidaf stiamo lavorando a un disegno di legge che garantisca la presenza di almeno un under 40 in ogni consiglio di amministrazione nelle società familiari associate. È un bene che i giovani facciano esperienze al di fuori dell’impresa di famiglia, ma è altrettanto importante creare le condizioni adeguate al loro rientro, perché sia la normale evoluzione di una carriera solida”.
Intanto, i miglioramenti della redditività portano a un aumento dell’occupazione fra le ditte familiari, cresciuta del 3,8% dal 2019 al 2021. In valori assoluti, si tratta di quasi 100mila nuovi posti di lavoro. In totale, i dipendenti delle realtà familiari mappate sono due milioni e 732mila. “Tutti i settori stanno vivendo un momento di salute. Anche laddove i tassi di redditività sono inferiori a quelli del 2020, rimangono ampiamente positivi”, prosegue Casoli. “Il focus ora deve essere sulla transizione digitale”.
L’Italia ha un numero di aziende familiari con ricavi superiori a un miliardo di euro simile a quello francese, ma meno gruppi con ricavi oltre i 2,5 miliardi
Lo sviluppo delle realtà familiari italiane ha portato il nostro Paese ad avvicinare la Francia nella costruzione di un tessuto di imprese con ricavi superiori a un miliardo di euro. All’interno di questo gruppo, però, le differenze sono evidenti. L’Italia conta 66 società familiari con ricavi compresi fra uno e 2,5 miliardi di euro, rispetto alle 48 francesi. Alzando il livello a ricavi tra i 2,5 miliardi e i dieci miliardi di euro, però, la situazione si ribalta: 23 italiane, 40 francesi. Infine, oltre i dieci miliardi, sono solo quattro i nomi italiani, contro i 12 in Francia.
“Il motivo della distanza è da rintracciarsi nelle specifiche del tessuto imprenditoriale italiano, costituito in larghissima parte da piccole e medie imprese. L’osservatorio evidenzia una distanza rilevante con Francia e Germania, ma quello su cui riteniamo importante concentrarci ora, come Aidaf, sono i risultati incoraggianti raggiunti nei quattro parametri di diversity monitorati”.
Fonte: Osservatorio AUB, elaborazione dati Orbis
Governance ed Esg: luci e ombre
I risultati a cui Casoli fa riferimento rispecchiano il confronto positivo per quanto riguarda la composizione dei consigli di amministrazione dei primi mille gruppi familiari del nostro Paese, rispetto a quelli francesi e tedeschi. “Le imprese italiane registrano dati interessanti sia per la presenza dei giovani nei Cda, il 28,4%, rispetto al 26,6% della Francia e al 15% della Germania, sia per la percentuale di donne, il 34,9%, ben al di sopra delle aziende tedesche, il 15,7%”. In questo caso, è la Francia ad avere la percentuale maggiore (40,9%) di cda composti almeno da un terzo da donne, come stabilito dalla norma sulla parità di genere. “Un altro aspetto che ritengo rilevante è il diretto legame tra maggiore diversity e migliori performance”, specifica il presidente di Aidaf. “Un’ulteriore conferma di come la strada intrapreso come Aidaf e come aziende familiari sia quella giusta per crescere in modo solido”.
Le proporzioni si rovesciano se si confrontano le attività familiari quotate con quelle non familiari. I cda delle prime hanno in media un numero minore di consiglieri, che però rimangono in carica per più tempo, leader più giovani – ma anche un gender gap più marcato da colmare – e una minore rappresentanza dei consiglieri di minoranza. Severo anche il raffronto riguardo alla presenza di un comitato dedicato alle tematiche Esg, esistente nel 29% delle imprese familiari, contro il 54% delle imprese non familiari.
Tra il 2020 e la prima metà del 2022 sono state 77 le Ipo sulla Borsa di Milano, nel 2021 50 hanno riguardato aziende familiari
Un discorso ancora diverso riguarda le figure guida delle società. In Italia, i leader familiari sono presenti in sei imprese familiari su dieci, un numero più elevato rispetto a Francia e Germania, così come rimane più alta la presenza di capi azienda con età superiore a 70 anni, tre su dieci nel nostro Paese. Leader che, nel 2021, sono stati protagonisti di 50 offerte pubbliche iniziali, il numero più alto del decennio. Si tratta del 90,8% delle 77 Ipo totali avvenute alla Borsa di Milano dal primo gennaio 2020 alla prima metà del 2022.
Francesco Casoli, Presidente Aidaf e Presidente Elica
Elica, la tradizione industriale di Fabriano
Quando si parla di aziende familiari che hanno fatto la storia del Paese, quella di Fabriano è una tappa obbligata. Centro di 30mila abitanti in provincia di Ancona, fin dal XIII secolo è attestata la produzione della carta. Nel 1782, Pietro Miliani fonda l’azienda poi nota con il nome Cartiere Miliani, che dal 1971 sfoggia il famoso logo realizzato dal designer milanese, Carlo Cattaneo. Nel ventesimo secolo sorge nella città marchigiana il distretto del bianco. È il 1930 e Aristide Merloni crea le Industrie Merloni, poi Merloni, produttrice del marchio Ariston. Nel 1975, dallo scorporo della Merloni nascono la Merloni Elettrodomestici, dal 2005 Indesit – acquistata nel 2014 da Whirlpool -, la Merloni Termosanitari, che nel 2009 diventa Ariston Thermo Group e la Ardo, divenuta la maggiore contoterzista europea nel comparto di elettrodomestici e chiusa lo scorso anno.
“Si respira un’aria nuova nelle Marche, c’è la consapevolezza che la regione possa tornare a giocarsi la leadership nei suoi settori storici”
La terza branca è quella relativa alla produzione delle cappi aspiranti. Faber, Elica, Airforce, Best e Tecnowind sono i principali nomi che nel corso degli anni hanno scritto la storia del settore e, in molti casi, sono stati acquisiti da multinazionali e grandi nomi esteri. Non è quindi un caso se le Marche risultano essere la prima regione italiana per tasso di crescita dei ricavi nel 2021 fra le aziende familiari mappate nella ricerca dell’osservatorio Aub, con un aumento del 26,5%. “Come ha sottolineato anche la fondazione Merloni, le imprese marchigiane legate storicamente alle famiglie hanno reagito in maniera più dinamica”, sostiene Casoli.
“Le Marche sono da tanto tempo terra di piccoli imprenditori che hanno fatto delle difficoltà di un territorio complesso la loro forza in vari comparti: il mobile, la meccanica, l’elettrodomestico, le scarpe. Ora si respira un’aria nuova, c’è la consapevolezza che la regione possa tornare a giocarsi la leadership su alcuni di questi mercati”, commenta il presidente di Elica, tra i maggiori produttori mondiali nel comparto delle cappe aspiranti, che ha chiuso il 2022 con ricavi di oltre 548 milioni di euro, dai 450 milioni del 2020. A dicembre del 2021, il gruppo ha firmato un accordo con il ministero dello Sviluppo economico, superando un piano di riorganizzazione aziendale che prevedeva la delocalizzazione di parte della produzione all’estero e l’esubero di circa 400 lavoratori. “Elica farà la sua parte, con la passione e la determinazione che la ha sempre contraddistinta”, assicura Casoli.
Fondata nel 1970 da Ermanno Casoli, la multinazionale fabrianese è presieduta dal figlio Francesco, che entra a lavorare nell’azienda nel 1978, anno della prematura scomparsa del padre, e nel 1990 ne diventa amministratore delegato. Oggi l’ad è Giulio Cocci. Presente sul mercato da oltre 50 anni, ha sette sedi produttive in Italia, Polonia, Messico e Cina e offre lavoro a più di 3.200 persone. “La storia di Elica mi ha insegnato molto sulla successione di impresa. Da noi è avvenuta in modo violento e inaspettato”, racconta Casoli. “Siamo stati fortunati che la famiglia abbia avuto e scelto al proprio fianco manager di qualità, capaci di interpretare i momenti di sviluppo, portandoci dove siamo ora. Questo credo sia il vero segreto”, continua il presidente del gruppo.
“Se mancano il giusto comportamento e le capacità nelle generazioni future che dovrebbero ereditate la guida dell’impresa, meglio cercare soluzioni diverse”
“Essere azionisti è un lavoro che richiede intuizione ed empatia, rispetto per l’azienda e per chi ci lavora”. Sulla continuità generazionale, Casoli mette in primo piano il bene delle società. “Se queste linee di comportamento e capacità non sono presenti nelle generazioni future che dovrebbero ereditare la guida dell’impresa non bisogna vergognarsi a cercare soluzioni diverse per far continuare a evolvere l’azienda. È la grande responsabilità che hanno le famiglie imprenditoriali. Pensare sempre al bene del futuro dell’impresa, anche a costo di passi indietro o di lato”.
Il vetro di Barovier&Toso
Nel 1979, in una scena del film Moonraker, il quarto episodio di Roger Moore come 007, si vede James Bond combattere in una ricostruzione cinematografica del museo del vetro di Murano e imbattersi in un prezioso oggetto, evitandolo di lanciare allo scagnozzo Chang durante il duello. L’oggetto in questione è un rifacimento della coppa nuziale realizzata intorno al 1445 dall’artista del vetro Angelo Barovier, utilizzando la tecnica del vetro soffiato. Circa dieci anni dopo, la Repubblica di Venezia gli concede l’esclusiva della produzione di un nuovo tipo di vetro, denominato cristallino o cristallo veneziano.
Nel XV secolo, i Barovier sono già da quasi 200 anni maestri dell’arte vetraria. Nel 1295, infatti, Jacobello Barovier apre a Murano una bottega, dando vita a quella che oggi è la sesta azienda familiare più antica al mondo. Dopo varie vicissitudini, nel 1939 l’impresa si fonde con le vetrerie dei F.lli Toso e nel 1942 assume la denominazione attuale, Barovier & Toso. Nel 2015, il gruppo viene acquistato dalla holding Oikia 3, guidata da Rinaldo Invernizzi, attuale presidente, artista e membro della famiglia fondatrice del marchio Invernizzi. In oltre 700 anni di storia, la vetreria, tra le più famose al mondo, ha realizzato opere per i più importanti marchi di moda, da Louis Vitton, a Bulgari, a Dolce e Gabbana, e del turismo, come la catena di alberghi Four Seasons.
“Sesta fra le aziende familiari più antiche al mondo, Barovier&Toso ha chiuso il 2022 con un fatturato di 16 milioni di euro e 18,5 milioni di raccolta ordini”
Oggi, Barovier & Toso è un’azienda in grado di fatturare 16 milioni di euro nel 2022 – in crescita sui 12 milioni del 2021 -, pronta a lanciarsi verso il suo futuro, nonostante la grande crisi del settore. “Le aspettative per il 2023 sono positive. Possiamo contare su un portafoglio ordini del 2022 che, già in partenza, ci garantirà alcuni milioni di fatturato. Tra questi ci sono molti progetti bespoke, ai quali teniamo in modo particolare”, spiega Diego Martinez Dubosc, Chief Commercial Officer della società. “Sono proprio questi a suscitare più interesse del pubblico: riceviamo richieste da tutto il mondo, molte da noti marchi del mondo del lusso, a conferma di uno scenario di continuità, dopo lo slancio dello scorso anno”.
“Stiamo lavorando per poter testare al più presto il primo forno con gas a idrogeno”
A contribuire ai recenti risultati sono anche gli investimenti effettuati nel corso degli ultimi sei anni dalla nuova proprietà dell’azienda. Al termine dell’estate, durante la quale i forni vengono spenti per svolgere lavori di manutenzione, molte vetrerie con volumi di produzione minori di Barovier&Toso hanno chiuso per sempre, a causa di una situazione resa insostenibile dall’aumento del costo dell’energia. “Il comparto sta vivendo un momento molto difficile. Il nostro obiettivo resta quello di rafforzare il nostro ruolo di leader nel settore dell’illuminazione artistica in vetro e un punto di riferimento per gli operatori del settore”, afferma Luigi Lucchetta, Chief Operating Officer dell’azienda.
Lucchetta è anche membro del cda di Assoluce e consigliere della sezione Industrie del vetro di Confindustria Venezia. In queste sedi, spiega, può portare avanti le istanze delle realtà del settore, alla ricerca di un’ottimizzazione dei costi indiretti, gas ed elettricità, dell’isola di Murano, oltre a un coordinamento in tema di normative legate a certificazioni ed esportazioni. “Gli aiuti offerti dalle istituzioni sono in linea con le aspettative delle imprese”, commenta il COO di Barovier&Toso. “In particolare, quelli erogati dalla regione Veneto e dal ministero delle Imprese del made in Italy, indirizzati solo al comparto del vetro di Murano, e quelli del governo centrale, il cosiddetto decreto Aiuti quater per l’industria”.
“Abbiamo superato il concetto di microcosmo familiare e puntato sull’internazionalizzazione, reinventarci per tenere in vita un patrimonio incredibile”
Da un lato, il blasone di poter lavorare per la più antica vetreria del mondo consentono al gruppo di ovviare al problema del ricambio generazionale, facendo registrare l’interesse di molti giovani. Dall’altro, la sua solidità finanziaria consente di investire in nuove tecnologie. “Stiamo lavorando con la stazione sperimentale del vetro di Murano e insieme a un’azienda fornitrice del gas idrogeno, per poter testare al più presto il primo forno con questa tecnologia”, prosegue Lucchetta. “Sul piano della tutela dell’ambiente sono stati raggiunti risultati considerevoli, dopo aver attuato una serie di interventi per ridurre il nostro impatto sul territorio”.
Sotto questo aspetto, specifica il manager, “attraverso l’istallazione di filtri a manica, abbattitori di polveri di nuova generazione, abbiamo ridotto le emissioni del 99,8%. In più, un sistema di recupero e di depurazione delle acque piovane di prima pioggia permette di evitare di riutilizzare le acque con residui inquinanti e impedire che finiscano in laguna”. L’impegno della più antica vetreria e tra le prime aziende familiari risiede anche nella creazione di una filiera corta e nell’ottimizzazione delle fasi produttive. A questo si aggiungono la prossima realizzazione di un impianto in grado di utilizzare il calore prodotto dai forni per riscaldare l’ambiente e l’acqua e il recupero degli scarti di lavorazione.
A spingere sull’innovazione e la sostenibilità è anche la nuova proprietà, nella figura del presidente Rinaldo Invernizzi. “Ho colto l’opportunità e la sfida di condurre questa azienda con grande entusiasmo e rispetto”, racconta. “Abbiamo saputo superare il concetto di microcosmo familiare e puntare sull’internazionalizzazione. Per tenere in vita e far risplendere l’incredibile patrimonio conoscitivo tramandato nei secoli di cui disponiamo abbiamo scelto di reinventarci, investire in tecnologia e design d’autore, cambiare strategia a livello organizzativo e manageriale, aprirci ai mercati esteri ed esportare in tutto il mondo”.
A oggi, una scommessa vinta. Barovier&Toso ha innovato l’utilizzo dei materiali, delle tecniche di produzione, delle forme e dei colori. Collabora con stilisti di fama internazionale ed esporta circa l’85% del proprio fatturato, in primo luogo verso Russia e Stati Uniti. Proprio negli Stati Uniti, a Miami, l’azienda ha creato la sua prima società sussidiaria, per arrivare meglio ai clienti americani. “La cosa che più mi affascina”, conclude Invernizzi, “è che rinnovarsi è possibile e attuabile, anche per una realtà come quella dell’antichissima arte vetraria muranese”.
Rinaldo Invernizzi, Presidente Barovier&Toso
Da Salerno all’Europa, la storia del gruppo Smet
“Ogni giorno ci svegliamo come degli apprendisti che non diventano mai maestri”. Dal 2008, Domenico De Rosa è amministratore delegato di Smet, società di trasporti e logistica, fondata dal nonno Domenico nel 1947 e poi gestita, fino al secondo passaggio di consegne, da suo padre, Luigi De Rosa, nominato Cavaliere del Lavoro. Nel corso della sua gestione, ha portato l’azienda a internazionalizzarsi, espandendosi a livello continentale, e l’ha resa una realtà all’avanguardia del settore sotto gli aspetti della sostenibilità ambientale e dell’innovazione tecnologica. Oggi, tra i vari impegni in programma per il suo futuro, non ha dubbi su quale sia il più importante: “la responsabilità di costruire e formare i miei successori, per cercare di essere i migliori e all’altezza del percorso realizzato finora dalla nostra impresa familiare, in una storia lunga 75 anni”.
“C’è resistenza alla svolta verso i trasporti intermodali da parte della politica, che non presta la dovuta attenzione allo sviluppo di modalità alternative”
Una storia che ha visto Smet crescere e diventare un gruppo di riferimento nel settore dei trasporti, facendo da apripista alla logistica intermodale in Italia. Nata a Salerno, ha concluso il 2021 con un fatturato aggregato di 450 milioni di euro. L’azienda, con una flotta di 5.500 veicoli, offre lavoro a più di duemila persone, tra dipendenti diretti e indiretti, in oltre 20 sedi in Italia e 14 in Europa. “Il 2022 è stato un anno di ulteriore crescita e consolidamento per la società”, afferma De Rosa. “Il periodo della pandemia ha portato a un’accelerazione dei processi di innovazione, iniziati già prima del sopraggiungere del Covid, che nel nostro caso riguardano il trasferimento modale dei trasporti”.
Tra i fondatori di Alis, l’associazione logistica dell’intermodalità sostenibile, creata nel 2016 insieme a Guido Grimaldi, Smet sostiene da diversi anni la svolta verso l’intermodalità dei trasporti, ossia la possibilità di combinare differenti tipologie di trasporto merci, come l’autotrasporto, i collegamenti marittimi e ferroviari. I principali obiettivi perseguiti dal gruppo di De Rosa e da Alis, che oggi conta circa 2.200 attività associate e un parco veicoli di oltre 190mila mezzi, sono la diminuzione dei costi e delle emissioni inquinanti nel settore, possibili tramite la riduzione degli spostamenti su gomma.
“Si nota però ancora una forte resistenza al cambiamento”, specifica l’ad di Smet. “Non tanto da parte della filiera del trasporto, ormai matura ad abbracciare questa nuova direzione, ma della politica, che ancora non presta la dovuta attenzione per creare le condizioni di sviluppo di modalità alternative, come le autostrade del mare e la ferrovia”. Motivo per cui, prosegue De Rosa, “è necessaria una continua attività di comunicazione e informazione verso gli organi istituzionali, affinché il processo venga preso in carico e affrontato da tutti gli attori competenti”.
“Come voluto da mio padre, abbiamo deciso di mantenere le attività strategiche a Salerno e così sarà anche in futuro”
In attesa che il contesto per l’applicazione del trasporto combinato migliori, dal 2014 Smet ha avviato un rinnovamento dei suoi mezzi, dapprima mediante l’utilizzo di tir alimentati a metano gassoso e a metano liquido. “Nel 2020, siamo approdati al bio-gas, che ci permette già da oggi di azzerare le emissioni”. A pochi giorni dall’approvazione del divieto di vendita di auto a motore termico da parte del Parlamento Europeo, sostiene De Rosa, “l’Europa sta perdendo l’opportunità di andare verso una mobilità effettivamente sostenibile, con una decisione presa in solitario a livello globale”. Invece di sfruttare un ventaglio di opzioni e tecnologie sostenibili e valutarne le performance nel tempo, continua l’ad di Smet, “si è deciso di intraprendere una sola strada, che dal 2035 rischia di creare una dipendenza da tecnologie e materiali esteri e asiatici”.
Tra le altre iniziative per promuovere la sostenibilità, c’è la scuola di formazione per eco driver, lanciata nel 2019 da Smet nelle sue sedi italiane, insieme a Iveco e Alis. Corsi professionali gratuiti rivolti ad autisti under 35, per avvicinare i giovani del settore al trasporto ecosostenibile e disporre di uno strumento in più per favorire la specializzazione all’interno dell’azienda. “Negli ultimi anni abbiamo registrato un aumento importante dei posti di lavoro e stiamo ridefinendo e differenziando diverse mansioni, per rispondere in maniera positiva alle esigenze dei dipendenti”.
Un capitolo dedicato riguarda l’occupazione giovanile. “Come voluto da mio padre, abbiamo deciso di mantenere le attività strategiche a Salerno, una scelta per il presente e il futuro dell’azienda”, sottolinea De Rosa. “Questo favorisce anche la creazione di un legame con il territorio: molto del nostro personale della sede di Salerno ha studiato e si è formato all’estero o fuori dalla nostra regione e poi è tornato qui a lavorare”.