I lavoratori sono meno fedeli all’azienda rispetto a una volta? Un post su Linkedin di Michele Callegari, fondatore di Barberino’s, lancia una riflessione sulla retention dei giovani talenti nelle startup. “Avevo una squadra corporate di una quindicina di persone, e nel giro di pochi mesi si è praticamente azzerata”
Mollati sul più bello. Capita nelle grandi storie d’amore, figurarsi nei rapporti di lavoro. Quando poi l’azienda è giovane, lanciata, e ha persino chiuso un round di serie A, entra dritta nei radar dei “cacciatori di teste” alla ricerca del prossimo colpo di mercato. Insomma, la retention è il problema. Gli spargimenti di sangue non sono obbligatori: si comincia a lavorare con una stretta di mano, ci si lascia – nel migliore dei casi – allo stesso modo. Certo, pur sempre di trauma si tratta. Nelle piccole imprese, anche in quelle che aspirano a ingrandirsi, le distanze si misurano in centimetri ed è facile finire col braccio sul computer del vicino. Non ci sono direttori del personale sorridenti a fare da filtro e l’aspetto emotivo conta parecchio.
Si prova a razionalizzare. “In fondo, è nell’ordine delle cose” dice a StartupItalia Michele Callegari (nella foto assieme al socio Nicolò Bencini), fondatore e amministratore delegato di Barberino’s, catena di saloni di bellezza declinati al maschile che in pochi anni ha creato un format riempiendo il vuoto della cosmetica per uomo. Callegari nei giorni scorsi ha pubblicato un post su Linkedin, per raccontare come, nel giro di pochi mesi, abbia assistito a una diaspora di collaboratori. Ora che ci sono le risorse e nel mirino c’è l’internazionalizzazione, l’imprenditore quarantenne si trova a dover rimettere in piedi una squadra. “Questa è una opportunità incredibile per tutti quelli che vogliono condividere la nostra missione e che vogliono lasciare un impatto sulle persone con il proprio lavoro” scrive, annunciando la campagna di assunzioni. Ma il post del manager lombardo mette a fuoco un tema di cui si parla poco, e accomuna le imprese che vogliono crescere: quella della retention, cioè come trattenere i dipendenti in un’epoca in cui, parole sue, “si è meno fedeli di una volta” . E la leva non può essere solo economica. Lo abbiamo raggiunto al telefono per una chiacchierata.
Tra tutti i punti interrogativi che la crescita di una startup inevitabilmente pone, questo è tra quelli non dico inaspettati, ma di cui si parla meno. Cosa è successo?
Il post l’ho scritto in maniera un po’ enfatica, come da copione sui social, ma racconta una storia reale: avevo una squadra corporate di una decina di persone, e nel giro di pochi mesi si è praticamente azzerata. Un paio sono andati via per ragioni personali, la maggior parte è finita nel mirino di altre aziende o mi ha comunicato con grande sincerità di cercare una nuova sfida professionale, magari all’estero o in ruolo che noi non potevamo offrire. Fortunatamente, la maggior parte ha rispettato il periodo di preavviso, consentendoci di effettuare una transizione ordinata.
Di quali figure vanno a caccia le grandi aziende?
Di middle management attorno ai 30 -35 anni. Per loro sono i ruoli più critici. Quelli con qualche anno in più, diciamo sui 45, sono più fedeli e non cambiano facilmente. Anche perché sono inseriti in una serie di meccanismi, dal mutuo alla famiglia, che portano a privilegiare la stabilità.
Reazione?
Complessa. Sicuramente è fisiologico. Peraltro, per essere una startup, avevamo un team di dipendenti corporate molto coeso e longevo. Ma con lucidità abbbiamo dovuto riconoscere di non poter competere con le offerte che i nostri dipendenti hanno ricevuto: né dal punto di vista salariale, né delle stock options, che comunque proponiamo anche noi. Poi c’è un altro punto chiave: in realtà di quel calibro, c’è un livello inferiore, con gli stagisti che si occupano delle mansioni più basilari, e uno superiore, con il personale più anziano che può insegnare qualcosa. Questo, per un trentenne che vuol crescere, è decisamente interessante.
“Per essere una startup avevamo un team di dipendenti corporate molto coeso e longevo”
Destinazioni?
Grandi corporate, società di calcio, grosse fintech e foodtech. Nomi importanti.
Accade spesso alle startup in fase di crescita come la sua?
Sì, ma non solo a loro. La caccia ai dipendenti si verifica anche nel mondo finanziario, quello da cui provengo. Ci sono gestori e società di consulenza, anche molto noti, che puntano a mantenere basso il costo del lavoro: ci riescono ingaggiando giovani appena usciti dalle università, ben sapendo che dopo un paio d’anni se ne andranno. Nel frattempo, i neoassunti si inseriscono in una macchina rodata in cui erano imparano a prendersi responsabilità e rischi, esperienze che poi potranno capitalizzare altrove.
Allora: qual è la partita per il manager di un’azienda ancora tutto sommato piccola ma in rapida crescita come la sua?
Capire dove posizionarsi nella catena alimentare del lavoro, allo stesso modo in cui per quel che riguarda il salone è necessario individuare il corretto posizionamento nei confronti della clientela.
Qual è il vostro?
Credo che una realtà come la nostra debba puntare alla fascia tra le figure junior che vogliono crearsi una professionalità e quelle con qualche anno di esperienza, che vogliono capitalizzarla in un contesto più grande e strutturato. La reputazione aiuta: oggi, con il marchio conosciuto e un buon round alle spalle, posso assumere profili di dipendenti cui due o tre anni fa non avrei potuto ambire. Ma credo accada lo stesso quando si fa il salto per diventare scale-up. E che, alla fine dei conti, bisogna riconoscere che siamo fortunati a essere attrattivi.
Il digitale ha drogato il mercato?
Va sottolineato che noi lavoriamo con la bellezza maschile, un business estremamente fisico e che deve essere in equilibrio dal punto di vista finanziario: non è possibile competere con realtà che non hanno la sostenibilità tra i kpi (key performance index, ndr), tra cui tante del comparto digitale. Facciamo formazione in cambio dell’impegno a restare con noi per un certo periodo, abbiamo un piano di stock option: ma per la tipologia del settore in cui operiamo, non posso offrire ai miei dipendenti di lavorare da Bali.
Il mercato del lavoro è cambiato?
L’impatto del digitale negli ultimi due decenni ha modificato la percezione del tempo. Prima si usciva dall’università con l’idea di investire per ricevere qualcosa nel futuro. Si parlava di anni. Con la velocità cui ci ha abituati la tecnologia, ci sono abilità che è possibile imparare in tre settimane. E’ un fenomeno generale: prenda il giornalismo, dove si è passati dagli articoli ai tweet da duecento caratteri. Insomma, per un 25-28enne, il mondo del lavoro è molto diverso da quello in cui ho cominciato io. C’è molta meno fedeltà: rispetto a noi, a quell’età sui curricula compaiono già molte esperienze. Questo, unito alla cultura dell’instant gratification, fa sì che se non vede risultati immediati un ragazzo tende a cambiare. Credo ci si possa fare poco, ferme restando le buone pratiche di retention da manuale.
Oggi cosa attira in un’azienda?
Non tanto lo stipendio, a mio parere: quando mi sono laureato avevo una lista di società che mi interessavano, e la paura di trovarmi con un buco nel curriculum. Il criterio era scegliere quella che pagava meglio. Oggi conta il senso di appartenenza, quello che ai nostri tempi era il “muretto” , la panchina ai giardini pubblici su cui ti ritrovavi con gli amici. Il digitale ha portato ad alienazione, una tendenza esasperata dai cellulari; le nuove generazioni sono più sole rispetto a noi quarantenni, e forse hanno bisogno di ritrovarsi in qualcosa più grande di loro in cui identificarsi. Del resto, i nostri padri avevano la ricostruzione del Dopoguerra come scopo di fondo, noi avevamo la crescita: per loro, probabilmente, la realizzazione passa anche dal lavoro.
Domanda finale: come lo mette in pratica nella sua azienda?
Dico ai miei barbieri che non sono dei tagliacapelli, ma che il loro competitor è un libro, Netflix, tutto quello che di buono si può fare nel prendersi del tempo per sé stessi. La nostra visione è aiutare ogni uomo a sentirsi bene, e in questo modo rendere il mondo un po’ migliore. Sono queste le cose ci aiutano a trattenere il personale. E sì, in in salone facciamo digital detox: si può consegnare il cellulare, e lo chiudiamo in cassaforte per tutta la durata del trattamento.