Ci sono numeri che non sono semplici statistiche, ma cartine di tornasole di una patologia sistemica. E il numero che emerge dal recente report OCSE “Education at a Glance” è di quelli che dovrebbero far tremare i polsi: il 17% dei laureati italiani si colloca al livello più basso per competenza nella comprensione di un testo.
Fermi tutti. Rileggiamolo insieme. Non stiamo parlando della popolazione generale, ma di coloro che hanno completato il più alto ciclo di istruzione. Persone che, in teoria, dovrebbero costituire la classe dirigente, l’ossatura intellettuale e professionale del Paese. E quasi uno su cinque, secondo i dati, fatica a fare di più che decifrare “testi brevi su argomenti familiari”.
Sgombriamo subito il campo da un equivoco: questo non è un giudizio sull’intelligenza delle persone. È una diagnosi spietata sull’efficacia del nostro sistema formativo nel fornire lo strumento più importante di tutti: la capacità di pensiero critico. E la mia tesi, da imprenditore e da studioso dei sistemi complessi, è che questa non è primariamente una tragedia per il mercato del lavoro. È una ferita mortale per la nostra democrazia.

Il mercato? Un termometro, non la malattia
Analizziamo per un istante i dati economici del report. L’Italia ha uno dei più bassi “premi salariali” per i laureati: solo il 33% in più di un diplomato, contro una media OCSE del 54%. Molti leggono questo dato come un’ingiustizia del mercato, che “non valorizza i nostri giovani”. Io temo che la lettura sia un’altra, molto più cruda: il mercato, nel suo cinismo, sta prezzando in modo abbastanza accurato un titolo che, in un numero significativo di casi, non è garanzia di competenze superiori.
Nel mio lavoro, quando devo assumere un collaboratore, il suo titolo di studio è l’ultima delle cose che guardo. Mi interessa la sua capacità di risolvere problemi complessi, di analizzare scenari, di argomentare una tesi e, soprattutto, di imparare ad imparare. Tutte abilità che si fondano su un pilastro unico e insostituibile: la capacità di leggere un testo complesso, smontarlo, capirne le implicazioni, valutarne le fonti e ricostruirlo in un pensiero originale. Se questa capacità manca, il “dottore” è solo un orpello.
L’anomalia, quindi, non è il mercato che paga poco. L’anomalia è un sistema che porta al traguardo della laurea persone a cui non ha fornito la cassetta degli attrezzi fondamentale per affrontare la complessità.
Perché la democrazia è a rischio
E qui veniamo al cuore del problema. Un cittadino che non sa comprendere a fondo un testo non è un cittadino pienamente sovrano, ma un suddito in balia della narrazione più semplice e impattante. È il terreno di coltura ideale per la propaganda, per la disinformazione, per le fake news e per i populismi di ogni colore.
Pensateci. La nostra intera vita democratica si basa sulla nostra capacità di processare informazioni complesse: un programma elettorale, un articolo di legge, un’analisi economica, un editoriale di giornale. Se la nostra abilità si ferma a “testi brevi su argomenti familiari”, come possiamo distinguere un’argomentazione fondata da uno slogan vuoto? Come possiamo valutare le conseguenze di una politica economica se non riusciamo a leggere oltre il titolo di un post su Facebook?
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Il sociologo e filosofo Jürgen Habermas parlava di “sfera pubblica” come quello spazio in cui i cittadini si incontrano e discutono razionalmente di questioni di interesse comune. Ma questa sfera pubblica, oggi sempre più digitale, richiede partecipanti attrezzati. Senza le competenze per discernere, analizzare e criticare, la sfera pubblica collassa in un’arena di tifoserie dove chi urla più forte ha la meglio. Diventa un campo di battaglia per operazioni di influenza, dove attori esterni o interni possono polarizzare il dibattito con estrema facilità. Come ha dimostrato ampiamente il lavoro di ricercatori come Walter Quattrociocchi, l’architettura delle piattaforme digitali tende a premiare la diffusione di notizie false o estreme, e un basso livello di literacy è il catalizzatore perfetto per questo fenomeno.
Serve un nuovo patto educativo
Il report OCSE indica anche problemi strutturali gravi: il sottofinanziamento cronico e un corpo docente universitario tra i più anziani al mondo. Sono problemi reali, intendiamoci. Ma temo che pensare di risolverli solo con più fondi e un ricambio generazionale sia come cambiare le gomme a un’auto col motore fuso.
Il punto non è solo quanti soldi investiamo o l’età di chi insegna. Il punto è cosa e come insegniamo. Il nostro sistema educativo è ancora troppo spesso basato su un modello trasmissivo e nozionistico, dove l’obiettivo è superare l’esame, non acquisire un metodo.

Dobbiamo ripensare radicalmente l’obiettivo della formazione. Dalla scuola primaria all’università, la priorità assoluta deve diventare la costruzione delle capacità di analisi critica del testo, di argomentazione logica, di media literacy e di comprensione dei sistemi complessi. Dobbiamo premiare le domande, non solo le risposte corrette. Dobbiamo insegnare a navigare nel dubbio, non a rifugiarsi in certezze preconfezionate.
La sfida che ci pone questo report non riguarda il prossimo punto di PIL o il tasso di occupazione giovanile. La sfida è molto più profonda: riguarda la sopravvivenza della nostra capacità di essere una comunità di cittadini pensanti. Perché un Paese di analfabeti funzionali, anche se con un pezzo di carta in tasca, non è un Paese moderno. È solo una folla in attesa del prossimo pifferaio.