Il rapporto è 56 a 1. 56 ceo della Valley appoggiano Clinton, finora uno solo, Thiel, Trump. I motivi sono a volte più ideologici che economici. Breve panoramica nel giorno dello scontro in diretta tv
Sulla carta non c’è storia. Con la Clinton un esercito di oltre 50 tra manager, esperti e founders della Silicon Valley, con a capo la numero due di Facebook Sheryl Sandberg, sul fronte opposto con Trump molta finanza e poca tecnologia, ma con un nome che in questo momento da solo basta a unire e dividere: il papà di PayPal, Peter Thiel. Comunque andrà, il quadro è questo. Thiel, cofounder di Paypal e tra i primi investitori di Facebook, alla Corte Suprema con Donald Trump presidente. Sandberg, braccio destro di Mark Zuckerberg, Segretario del Tesoro se gli elettori Usa scegliessero Hilary Clinton. Tradotto, la Silicon Valley entrerà nella stanza dei bottoni della politica Usa, qualunque candidato entrerà alla Casa Bianca.
Lunedì 26 settembre i due pretendenti si sfideranno nel loro primo faccia a faccia Tv all’università di Hofstra, nello stato di New York. Una sfida che metterà a confronto due visioni contrapposte del ruolo degli Usa nel mondo. Come è noto, la maggior parte degli endorsement dei big della Silicon Valley sono andati a Clinton.
Per la precisione, il rapporto è di 56 per Clinton. Uno per Trump. Ma quelli a favore del candidato repubblicano sono cresciuti anche da quelle parti nelle ultime settimane. Le motivazioni sono varie. Trasversali. E spesso più macroeconomiche, addirittura filosofiche piuttosto che semplicemente dettate da ragioni di business.
1. Perché Thiel appoggia Trump
A dirla tutta, l’appoggio di Thiel a Trump ha lasciato senza parole (né ragioni) anche chi meglio conosceva Thiel. Prendiamo per esempio Greg Ferenstein, uno dei giornalisti più addentro alle vicende della Silicon Valley. Ha detto: “Ho sentito decine di persone vicine a Thiel, hanno parlato con lui, ma nessuno ha ben capito perché lo stia facendo.
Una volta mi aveva detto che il suo presidente preferito è stato Kennedy. Trump è quanto di più lontano da ciò in cui crede, quello che almeno abbiamo imparato su di lui negli anni”.
2. La sconfitta dello stato innovatore
Il 21 luglio Peter Thiel si era presentato alla convention repubblicana che ha incoronato Trump così: “Sono fiero di essere gay”. Prima volta nella storia in una kermesse conservatrice. Standing ovation del pubblico (perlopiù bianco) in sala. Nelle dichiarazioni ufficiali, Thiel ha motivato la sua scelta per Trump in maniera assai particolare:
“Una volta il governo degli Stati Uniti era l’avanguardia della tecnologia. Ci ha portato sulla Luna e ha contribuito alla nascita di Internet. Oggi non è più così. Dobbiamo accettarlo. Nelle centrali nucleari si usano ancora i floppy disk”.
Thiel, libertario da sempre, con un patrimonio personale stimato intorno ai 3 miliardi, sostenitore di un anarco-capitalismo radicale, crede che Trump (patrimonio netto 4,5 miliardi) possa azzerare l’apparato. Non è chiaro come. Ma in molti pensano che un disimpegno degli Stati Uniti sul welfare, sulle spese di stato, e una diversa politica macroeconomica potrebbero essere le armi per riportare l’America alla vecchia gloria riecheggiata da Trump.
3. Maledetto Keynes, maledetto welfare
Thiel vede in Trump una sorta di rivoluzione creatrice. Sei anni fa Thiel ha spiegato al Wall Street Journal perché ogni politica keynesiana è un disastro per l’America: “In un mondo dove il benessere è in crescita, puoi cavartela stampando moneta. E’ successo negli anni Trenta, quando la crescita permetteva di poter stampare moneta senza inflazione. Oggi non funziona così. Stampare moneta non funziona più e probabilmente dovremmo liberarci del welfare state”.
Altro punto in comune tra Thiel e Trump questo del welfare. Forse non chiaro del tutto nemmeno a loro. In un saggio del 2009 Thiel ha scritto: “Dal 1920 ad oggi la crescita dei beneficiari del welfare state e l’estensione del diritto di voto alle donne – conseguenze notariamente dure da accettare per un libertario – hanno reso la nozione di democrazia capitalistica un ossimoro”. E Trump potrebbe riportare quell’ossimoro in realtà.
4. Perché la vice di Zuck e 56 ceo stanno con Hillary
Una delle “promesse” di Hillary Clinton che deve aver sicuramente fatto innamorare i big della Silicon Valley è stata sicuramente la sua “Initiative on Technology & Innovation” pubblicata gli ultimi giorni di giugno. Il programma include dei punti che sembrano scritti apposta per conquistare voti (e fondi) dell’industria digitale.
Tra i punti dell’iniziativa proposta da Clinton si leggono proposte quali:
- internet ad alta velocità a tutti i cittadini americani prima della fine del primo termine;
- l’impegno di difendere i principi della net neutrality e i recenti provvedimenti in favore di questi da parte della Federal Communication Commission;
- investimenti in informatica e materie STEM a scuola, come portare più computer nelle scuole e fare formazione a 50 mila insegnanti in materie digitali;
- diversificare la forza lavoro nei settori tech e rinforzare la presenza di lezioni STEM in college e università storicamente frequentate da studenti afro-americani;
- un programma di debito agevolato per studenti che avviano startup e che vogliono diventare imprenditori;
- una commissione sulla sicurezza digitale che sembra voler “proteggere” il settore da influenze miliari;
- un gruppo di alto profilo di “esperti e leader” che possano trainare la cosiddetta “gig economy”, ovvero l’economia fondata su lavori saltuari che si appoggiano a servizi come Uber.
5. Chi vota Clinton
Se Clinton si dimostra attenta verso le potenzialità dei talenti dell’industria tech, la Silicon Valley è sicuramente più propensa verso la candidata democratica piuttosto che verso Trump (con la grande eccezione di Peter Thiel). Si stima, infatti, che i colossi del digitale abbiano investito su Clinton circa 4 milioni di dollari. Lo scorso giugno, una lista di personalità e Ceo ha sottoscritto addirittura una lettera di endorsement alla Clinton, e tra i “backers” si riconoscono nomi celebri: oltre alla già citata Sheryl Sandberg, ci sono il Ceo di Netflix Reed Hastings, Il Ceo di Airbnb Brian Chesky, il founder e Ceo di Dropboxe Drew Houston e molti altri (qui la lista completa).
6. Sandberg, l’altra metà di Facebook
Solo sette giorni fa, a margine dell’esplosione della bomba a New York, Hillary Clinton ha richiamato la Silicon Valley per fare “tutto il possibile” per contrastare l’espansione del terrorismo e per scoraggiare i meccanismi di reclutamento online dell’Isis e dei cosiddetti “lupi solitari”. “Il governo – ha sottolineato – ha molto da fare per intercettare i lupi solitari, ma non può farcela da solo, ha bisogno del sostegno delle grandi aziende tech e degli esperti del web”.
Risale a qualche settimana fa l’indiscrezione che Clinton nominerà, in caso di elezione, Sheryl Sandberg, la numero due di Facebook, Segretario del Tesoro. Se così sarà, Sandberg, 47 anni, sarebbe la prima donna nella storia a ricoprire la carica. Motivo per cui, dicono i media, le sue “resistenze” ad abbandonare l’ambiente aziendale per la politica cadrebbero di fronte a un ruolo di tale importanza storica (Sandberg è un’attivista per l’incremento di presenze femminili nelle posizioni di potere, come spiega nel suo libro Lean In).
7. E la Clinton ha già assunto 50 ex Google, Facebook e Twitter
Se il braccio destro di Zuckerberg diventerà il Segretario del Tesoro, la Silicon Valley entrerà per la prima volta nelle stanze del potere. Nelle stanze “operative” della politica, invece, il mondo digitale ci è entrato già da un pezzo. La campagna elettorale di Clinton, ad esempio, si è avvalsa del team tecnologico più grande nella storia delle elezioni americane, e probabilmente anche il più smart. Clinton ha messo insieme una squadra di 50 persone reclutate tra i manager di Google, Facebook e Twitter.
Un altro aspetto sul quale il team di Clinton si è fatto valere è stata la raccolta dei soldi. Come spiega su Medium Kyle Rush, Deputy Chief Technology Officer del team di Hillary Clinton, una delle cose che ha incrementato le donazioni è stata la ridefinizione della pagina web che chiedeva ai visitatori di salvare il numero della carta di credito dopo aver effettuato il versamento. Questo piccolo cambiamento, insegna l’e-commerce, è cruciale per trasformare un visitatore in un cliente. Con un piccolo cambiamento (passare da un modello che prevedeva 3 click a uno che richiedeva un solo click) il team ha registrato un incremento del 240% di donatori che salvavano la loro carta di credito.
8. Alla fine è sempre la guerra dei dati personali
Preliminarmente, ci sono almeno due ragioni per cui la Silicon Valley stia diventando sempre più interessante agli occhi della politica statunitense (e viceversa). Il primo: costituisce una riserva di esperti e manager che hanno costruito carriere in ambienti creativi ma molto sfidanti, dove viene richiesta estrema flessibilità, devozione, lucidità. Il secondo: la Silicon Valley rappresenta una grande fetta di economia, che può essere declinata in diversi ambiti, dai trattati internazionali all’uso dei dati, dalla salute alla privacy.
9. La guerra dei dati
Un ultimo punto passa proprio dal Transatlantic Trade and Investment Partnership, noto forse di più con la sigla TTIP. Un accordo di libero scambio tra Usa e Europa. Per i critici alla Morozov dovrebbe essere l’archetipo della vera natura dell’alleanza tra il neoliberismo e la Silicon Valley. Comunque la si veda, nel TTIP c’è una parte che riguarda la restrizione dei freni alla protezione dei dati da parte dell’Europa (Cfr Evgeny Morozov, I Signori del Silicio, pg 56). E i dati degli utenti sono oro per molti colossi della Silicon Valley. Trump è fortemente contrario alla ratificazione di questo trattato. Clinton meno. Ed è su politiche come queste che si giocano gli endorsement dei Big della Silicon Valley. Tutti, tranne Thiel.