Le ampie vedute di un grande psichiatra e intellettuale rivivono nell’archivio storico. Il ricordo del nipote. «Mio nonno un grande comunicatore, consapevole che una rottura sarebbe stata possibile e significativa solo se spinta dal basso»
Il pensiero di Franco Basaglia continua a vivere all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti di Venezia. A Palazzo Loredan, in campo Santo Stefano, è stato recentemente ospitato l’Archivio Storico a testimonianza della sua opera e di quella di Franca Ongaro, la moglie, compagna di tante battaglie e coautrice di molti scritti, al suo fianco fino alla morte. Basaglia è stato il riformatore della psichiatria italiana, una delle figure che più hanno guidato il cambiamento nella storia contemporanea del nostro Paese e di molte altre realtà sparse per il mondo. A StartupItalia ce ne parla il nipote di Franco Basaglia, che porta il suo stesso nome.
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Primi passi di una rivoluzione
Franco Basaglia nacque a Venezia l’11 marzo del 1924. «Nel dicembre del 44′ mio nonno venne arrestato per la sua attività antifascista e rimase in carcere fino alla fine della guerra», racconta il nipote. Dopo la laurea in Medicina nel 1947, conseguì la specializzazione in Malattie nervose e mentali e la libera docenza, e nel 1953 iniziò la professione presso la Clinica universitaria di Padova. Nello stesso anno sposò Franca.
«Dopo un periodo di ricerca e formazione psichiatrica e filosofica di scuola fenomenologica, nel 1961 vinse il concorso per l’Ospedale Psichiatrico di Gorizia. Il primo impatto con l’istituzione manicomiale fu drammatico», continua il nipote Franco. Lo stesso Basaglia ne parla negli “Scritti”, ristampato di recente dal Saggiatore: “La prima volta che entrai in un carcere, ero studente in medicina e vi entrai come prigioniero politico, quindi dalla parte dei reclusi. Era l’ora in cui si vuotavano i buglioli delle celle e la mia prima impressione fu di entrare in una enorme sala anatomica, dove la vita aveva l’aspetto e l’odore della morte. Il carcere mi appariva come un letamaio impregnato di un lezzo infernale…. Dopo alcuni anni entrai in un’altra istituzione chiusa: il manicomio. Questa volta non come internato ma come direttore. Ero dalla parte del carceriere, ma la realtà che vedevo non era diversa: anche qui l’uomo aveva perso ogni dignità umana; anche il manicomio era un enorme letamaio”. Iniziò l’opera di trasformazione della logica manicomiale: l’eliminazione delle tecniche di costrizione, delle camicie di forza e dei letti di contenzione, delle terapie a base di elettroshock e insulina, degli ambienti malsani, del sudiciume, della denutrizione. Era fondamentale raccontare prima l’orrore del manicomio e, quindi, il cambiamento possibile in atto. Per questo Basaglia invitò giornalisti, fotografi, artisti e registi negli ospedali che diresse.
Nel 1969 uscì “Morire di Classe”, con le foto del manicomio di Gorizia di Berengo Gardin e Carla Cerati e la RAI mandò in onda “I Giardini di Abele”, in cui Sergio Zavoli mostrò per la prima volta l’interno di un manicomio a migliaia di italiani intervistando gli internati nel parco dell’ospedale. L’impatto fu enorme. Nello stesso anno, dopo l’esperienza al Community Mental Health Centre del Maimonides Hospital di New York, Basaglia venne nominato direttore dell’ospedale psichiatrico di Colorno (Parma), esperienza destinata a durare poco tra difficoltà burocratiche e divergenze politiche. Nel 1971 accettò la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste, riorganizzò l’équipe di medici e infermieri e riconvertì i reparti. Era chiara la necessità di un cambiamento profondo. Il manicomio non si poteva migliorare, si doveva chiudere. E si doveva anche superare la comunità terapeutica con una finalità più ardita anche sul piano politico. A Trieste, il territorio riorganizzato ospitò i pazienti creando una rete di servizi esterni per favorire la loro integrazione e l’inserimento graduale nel mondo del lavoro. Nel 1973 arrivò il riconoscimento giuridico della Cooperativa Lavoratori Uniti che offrì agli ex pazienti la possibilità di mantenersi autonomi occupandosi della pulizia e manutenzione dei reparti, del parco, delle cucine. I “matti” vennero fatti uscire, partecipare alle iniziative della quotidianità cittadina o a brevi villeggiature fuori porta. «Mio nonno pensava che tutti non solo potessero, ma dovessero fare qualcosa per cambiare le cose. Non solo medici e tecnici del Sistema Sanitario Nazionale, pubblico, sostenuto e potenziato, ma il mondo politico, imprenditoriale, intellettuale e studentesco avrebbero dovuto condividere la responsabilità del cambiamento».
Verso la legge Basaglia
Lo stesso anno prese forma l’opera collettiva “Marco Cavallo”, il cavallo azzurro di cartapesta nato nei laboratori artistici dell’ospedale costruito a partire dalle idee dei ricoverati.
L’evoluzione dell’esperienza di Trieste e di molte altre che iniziarono a svilupparsi in diverse realtà italiane favorì un deciso cambiamento del dibattito culturale sulla malattia e sulla salute mentale che spianò la strada all’approvazione della Legge n.180 nel 1978, meglio conosciuta come “legge Basaglia”. Con l’entrata in vigore della normativa, i malati riacquistarono i diritti umani e civili e, per la prima volta, la reclusione in manicomio smise di essere la risposta automatica alle loro necessità. Inoltre scisse la tutela della salute mentale dalla difesa dell’ordine pubblico.
Messaggi dal passato per il presente
Una delle citazioni più note di Basaglia recita: “…La testimonianza è fondamentale. Noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo ‘vincere’, perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo convincere” (Basaglia, Conferenze Brasiliane). Il nipote Franco ricorda che il lavoro pratico e teorico di Basaglia è uno strumento critico contemporaneo fondamentale per discutere non solo di salute mentale ma anche di esclusione sociale in ambito medico, filosofico, politico: «Mio nonno era un grande comunicatore, consapevole che una situazione di rottura e rinnovamento sarebbe stata possibile e significativa solo se spinta dal basso: non solo chiudere i manicomi, ma farlo come risultato del cambiamento della cultura sanitaria e democratica di tutta la popolazione. Le sue idee sono estremamente attuali, non solo nell’ambito della saluta mentale ma, ad esempio, in quello del trattamento degli immigrati, delle reclusioni negli ospizi e RSA, dello stato inaccettabile delle nostre carceri. Credo che l’insegnamento più importante e più innovativo che lascia mio nonno sia proprio quello di mettere sempre al centro l’essere umano, nella sua completezza, affrontando le contraddizioni stesse che stanno alla base dell’idea di libertà».