In questi ultimi giorni sulla Penisola si sta assistendo a fenomeni che testimoniano quanto il cambiamento climatico stia spazzando via le mezze stagioni, con sbalzi di temperature che superano i 10 gradi da un giorno all’altro ed eventi climatici sempre più preoccupanti. Il clima impazzito è stato il peggior nemico dell’agricoltura in Italia nel 2023. Come affrontare questo 2024? E quali saranno i lavori più richiesti in futuro nel settore ambientale? Lo abbiamo chiesto al professore di Botanica all’Università Milano Bicocca, Massimo Labra, che si occupa anche di coordinate lo spoke 5 dedicato alla biodiversità urbana del National Biodiversity Future Center (NBFC) – PNRR e lo spoke 1 dedicato alla transizione ecologica dell’ecosistema di ricerca MUSA – PNRR.
Leggi anche: A Castelporziano gli scienziati studiano la biodiversità. 320 milioni dal PNRR per disegnare il futuro
Professore, in Italia quanto è preoccupante il fenomeno della deforestazione?
In realtà, la forestazione in Italia è paradossalmente migliorata nel tempo: abbiamo più ettari ma i nostri impatti ambientali contribuiscono in maniera indiretta alla deforestazione nel mondo. Continuiamo a consumare legname e impattiamo sul pianeta. Allo stesso tempo, il dato positivo è che negli ultimi anni la forestazione è arrivata anche nelle grandi città, portando nella città italiane 11 milioni di superficie forestata. Tra gli obiettivi del PNRR c’è anche quello di piantare 6 milioni di alberi entro il 2025 e, con il ministero dell’Ambiente tutte le città metropolitane si stanno attivando per raggiungere questo numero,
Come si può riuscire nell’intento?
Si deve pensare a come mettere in piedi delle foreste urbane. Il National Biodiversity Future Center da tempo si sta interrogando su questo: non basta mettere delle piante vicine ma si devono creare contesti resilienti e lo si deve fare non più con un atteggiamento che viene dalle amministrazioni ma dalla cittadinanza stessa.
È, dunque, anche un tema culturale?
Piantare un albero è come fare un figlio: la ricerca deve essere partecipata e responsabile. Piantare un albero è, pertanto, anche un’assunzione di responsabilità. Si pensi che l’80% degli ecosistemi del nostro paese sono alterati: stanno male, non sono resilienti e non sono pronti ad autoripararsi i danni. In questo senso si parla di “restoration economy”, che riporta in vita gli ecosistemi che attualmente si trovano in contesti degradati a instabili, magari mettendo qualche albero in più ed eliminando i fattori di stress come la deviazione dei corsi dei laghi e il ripristino delle aree contaminate. Esistono alcune tecniche, come le fito-tecnologie che ristabilizzano le piante. Dobbiamo adottare quelle che vengono chiamate “nature solutions”. Al posto di piazze cementificate, giardini e area verdi potrebbero anche contribuire ad abbassare le temperature, migliorare la qualità dell’aria e il rumore.
Esistono dei progetti in tal senso?
Il National Biodiversity Future Center ha elaborato un catalogo per trovare buone soluzioni a seconda dell’area di interesse: ci sono soluzioni verdi che tutti possono adottare. Per esempio, è sbagliato coltivare specie esotiche infestanti, tante volte ci facciamo prendere dal lato ornamentale ma non sappiamo che quelle specie possono essere le peggiori nemiche del nostro ambiente, come il ciliegio esotico che si è sostituito alle specie tradizionali. Al momento siamo anche a lavoro per lo sviluppo di sensori che siano in grado di capire come bloccare le aree infestanti ed è importante che i cittadini diventino i nostri primi alleati.
Cosa potremmo fare tutti per fare in modo di ridurre il livello di specie infestanti?
Ad esempio, quando si è a conoscenza di specie infestanti, segnalarle al National Biodiversity Center, cosicché le si possano compartimentare. Abbiamo sempre pensato che il nostro Paese abbia bisogno di monitoraggio e conservazione e spesso non ci rendiamo conto della biodiversità che abbiamo. Solo l’Italia conta più del 50% delle piante dell’intera Unione Europea, e allora perché non creare il lavoro del futuro su questo?
A tal proposito, quali saranno i lavori più ricercati nel settore della sostenibilità?
Penso al tecnologo della diversità, delle aree umide, all’esperto di finanza sostenibile: sono lavori che stanno crescendo tantissimo e non creano disparità di generazione, ne geografiche ne di genere. Incentivare lo studio e l’approfondimento di queste discipline rappresenterebbe anche un chiaro segnale per colmare il gap generazionale, di genere e geografico.
La GenZ è pronta?
Le nuove generazioni hanno una sensibilità a questi temi molto elevata e percepiscono il disastro ambientale come qualcosa che crea loro un vero e proprio danno. Le domande che spesso fanno alle generazioni precedenti sono come lasceranno questa Terra. Considerando, poi, che oggi nessuna professione può fare a meno di un bilancio di sostenibilità, gli esperti in questo settore saranno sempre più centrali nel futuro e verranno ancor di più premiate le soft skills legate alle pratiche di sostenibilità. Nel National Biodiversity Center abbiamo avviato un dottorato perché vogliamo tenere qua i giovani talentuosi. Ricordiamoci sempre che non si nasce bravi, ma lo si diventa. E tutti possono diventare degli ottimi professionisti del settore.