Chissà chissà domani (…)
Su quali strade camminerà, cosa avrà nelle sue mani (… …)
E se è una femmina si chiamerà Futura
Lucio Dalla, Futura
Grammatica: sostantivo femminile.
Sintassi, semantica, declinazione, coniugazione, congiunzione. Tutti sostantivi femminili.
È forte il genere femminile nel campionario del pensiero linguistico. Però quando arriviamo ai modi dei verbi, che esprimono le forme dell’azione, ecco, tutti nomi al maschile. Indicativo congiuntivo infinito participio imperativo gerundio. Mezza eccezione per condizionale, che ha anche il femminile, ma lì indica la sospensione di una pena, tutta un’altra storia.
Diverso per i tempi: prese come parole in sé, presente, passato e futuro sono aggettivi, quindi hanno sia il maschile sia il femminile. Ma quando diventano sostantivi tocca stare attenti: presente è il buro-archetipo della lettera commerciale (con la presente siamo lieti di…); passata è il pomodoro della nonna conservato in bottiglia. È con futura che si trema:
Il suo nome detto questa notte mette già paura
canta Lucio Dalla. Una coppia, futura-paura, che è già nel senso comune, prima che nella rima. È un suono pieno di aspirazioni, ma anche di precarietà, specie per chi ha perduto casa o lavoro o affetti o luoghi.
Aruspici, cassandre, cartomanti, esperti di viscere di animali o di voli di uccelli: l’interpretazione del futuro, e il contestuale sforzo di rassicurazione (tipo l’Andrà tutto bene in pandemia) sono tra le occupazioni principali degli esseri umani. Chissà se la lingua ci aiuta a capirci qualcosa.
Un movimento dell’essere
Che il futuro sia un movimento dell’essere è spiegato dall’etimo: il verbo füo è una forma antica del latino sum, essere, che sopravvive nel nostro passato remoto (fui), nel congiuntivo, regno dell’ipotesi e dell’incertezza (fossi), e anche nella parola stessa “futuro”. Sarebbe interessante anche lo studio di altre connessioni, come quella con il greco phyo, diventare; con la physis, forza della natura e divinità originatrice del cosmo; e di lì con la fisica, e pure con il feto.
Ma perché un movimento dell’essere dovrebbe far paura? Forse perché è un essere strano, un essere che ancora non è. Che sta davanti, lontano, non si fa vedere. Magari si affaccia (sogni, desideri, progetti), in una dimensione informe, di promesse e magari di minacce, comunque difficile da definire. Che, poi, in latino i verbi spero, promitto e iuro vogliano l’infinito futuro, non conforta gran che. E neppure ciò che resta del participio futuro, che in latino indicava l’imminenza di un’azione: che quello venturo sia un anno propizio, o che il restauro sia duraturo, che sian proprio contenti i morituri salutando l’imperatore prima di farsi sbranare, o che il nascituro porti in casa più gioia che ansia, pure quando sarà creatura, sono pur sempre incognite.
La puntata di Dentro le Parole si può rivedere su Youtube e anche sul nuovo canale Instagram di Mediobanca, uno spazio dedicato a progetti e storie di inclusione, impegno sul territorio, linguaggio e diversità (qui)
L’insostenibile leggerezza del diventare
Chi sono davvero?
Magari ce lo siamo chiesto, in varie fasi della vita. O chi vorrò essere?, o chi-come voglio diventare tra 3-5-10-20 anni? O ancora: come mi vedo tra 5-10-20 anni? Quando inizia davvero il futuro? stasera? tra un mese? dopo le ferie? Per raggiungere quale traguardo sono disposto a soffrire?
Domande brevi, cui è difficile trovare risposta guardando per aria in atteggiamento speculativo. E chissà quanto tempo ci andrebbe a rispondere.
Figurarsi se le complichiamo un po’:
- perché spesso coniughiamo le frasi future con verbi al presente? e non solo per il futuro imminente, ci vediamo domani; anche per i progetti a lungo termine, finisco l’università poi faccio un master; o per indicare un’esitazione, un giorno o l’altro me ne vado da qui;
- che significato danno al futuro le generazioni viventi? Segnate dagli stessi eventi e da modi simili di vivere il presente (cultura, valori, economia, clima…) e il passato (decisioni, esperienze, memoria…), le persone come intenderanno le prospettive dell’avvenire?
- perché la gente crede all’oroscopo? Un po’ tutti, eh: se anni fa poteva intrattenere pensionate/i e casalinghe/i, oggi è materia di consumo anche per la popolazione colta (fare colazione leggendo su Internazionale l’oroscopo di Brezsny è un rituale ancora vivo fra i Millennial > festivalpsicologia.it). E con qualche risvolto aberrante, come l’astrocrazia, il governo delle relazioni fondato sugli stereotipi dello zodiaco. La questione, da buffa, può farsi pesante, quando finisce per delineare una particolare discriminazione: sembra incredibile, in Cina riguarda le persone della Vergine, con annunci di lavoro e app d’incontri che le escludono;
- perché Dorian Grey è atterrito dalla paura d’invecchiare, e si vende l’anima per restare in eterno giovane e bello, fino a ottenere che la decadenza si rifletta sul suo ritratto, e invece oggi spopolano nei social applicazioni come FaceApp, AgingBooth, o Diventa Vecchio, che usano l’intelligenza artificiale per invecchiare i volti umani? (funzionano anche per ringiovanirli, ma questa funzione è usata pochissimo).
Insomma se persino per i vip della politica, della cultura e dello sport – pur sempre travolti da tempeste di acido ialuronico e da interventi estetici – oggi sembrano sexy anche i capelli grigi e le zampe di gallina, forse è perché la proiezione nel futuro ha un’attrattiva irresistibile. È l’essere che si fa divenire, o nella forma più intensa diventare. De-venire, venire da, venire giù. O anche venire a essere, trasformarsi, farsi diversi da ciò che si era (simile in inglese, become, be-come). Un movimento che si esprime nel tempo e nello spazio, e che sembra voler scavalcare il presente, forse perché il passato appare come un quadro di confronto più stabile, più pratico e maneggevole, per ogni cambiamento.
Anche se figuriamoci se il presente si lascia scavalcare:
Ogni vita che salvi, ogni pietra che poggi
Fa pensare a domani, ma puoi farlo solo oggi
Domani, canzone realizzata da “Artisti uniti per l’Abruzzo”, pochi giorni dopo il terremoto del 2009
Tempo/spazio e manipolazione linguistica
Prima di essere nelle parole, il tempo è una percezione, che ha una stretta connessione con lo spazio. Notiamo come gesticoliamo, o muoviamo lo sguardo o l’asse del corpo, quando raccontiamo qualcosa: in genere scandiamo i racconti del passato con gesti verso la nostra sinistra, o verso il basso, o l’indietro; desideri o progetti futuri, invece, con gesti verso destra, in alto o in avanti; gesti più vicino al corpo disegnano il presente.
È la timeline, la linea del tempo, il modo in cui organizziamo nella mente i capitoli della nostra esistenza. Lo facciamo anche con le parole: ed ecco espressioni come hai una vita davanti, mettiamocelo alle spalle, guardiamo oltre, o con metafore spaziali che rivelano passaggi temporali, come ricominciamo daccapo, riavvolgiamo il nastro, saltiamo a pié pari, voltiamo pagina.
Un uso accurato delle parole legate al tempo può sfumare un problema, spostandolo nel passato, o rinvigorire una speranza, collocandola in un futuro imminente:
A – È una decisione rischiosa.
B – Sì, poteva sembrare rischiosa, ma pensando ai vantaggi che porterà, ora possiamo prenderla.
Poteva – porterà – possiamo. Passato-futuro, e infine presente. Un corto circuito linguistico che produce effetti interessanti. Noi non ci spostiamo mai in modo lineare lungo i tre tempi della vita: piuttosto, sulla base delle esperienze, di ciò che abbiamo imparato o fallito (passato), e in vista di ciò che speriamo (futuro), noi viviamo la vita oggi (presente).
Da “obiettivo” a “risultato atteso”: potere della prefigurazione
Forse è anche per questo che allo storytelling è stato riconosciuto il potere di propulsore di cambiamento. Non è solo racconto di eventi: è una specie di eredità per il futuro. Chi guida persone, a scuola, in azienda, nello sport o nella politica, spesso cita condottieri, eroi, geni dell’arte o della scienza, per accendere una volontà nuova. Ricorre al potere evocativo di una storia per ispirare un cambiamento, e trasformare un “obiettivo” in un “risultato atteso”. L’obiettivo (latino ob-jicere, ob, davanti + jacere, gettare) è davanti a noi. Il risultato (re, dietro + sultare, saltare) è un participio passato, qualcosa che, nella nostra mente, è già alle nostre spalle. L’aggettivo “atteso”, in più, ne fa pregustare la gioia.
Come abbiamo visto con l’oroscopo, tendiamo a prefigurare tutto il prefigurabile: meteo, traffico, mercati, fino all’umore di chi stiamo per incontrare. Smaniamo per fantascienza, fantapolitica, fantacalcio e fantasanremo. Vorremmo avere le capacità paranormali dei pre-cog, o precognitives, del film Minority Report, dove si possono prevedere i crimini e perfino arrestare i potenziali criminali prima che li commettano (va beh, lì c’è Spielberg, sempre quello di Ritorno al futuro, e sotto c’è il romanzo di Philip Dick).
Ma il prefigurare, da istinto, può diventare una scelta: se la scriviamo prima, la storia che vogliamo realizzare poi, abituiamo cervello e cuore a viverla come già realizzata. Così pianifichiamo viaggi, traslochi, cambi di lavoro o d’identità; facciamo prove di evacuazione a scuola, in ospedale, negli uffici. Se raccontare il passato aiuta a consolidare un’esperienza, raccontare il futuro prima che accada è una strategia comportamentale: saremo in grado di riconoscerne i passaggi importanti quando si verificheranno per davvero. E magari anche a influenzarli, e a trarne beneficio. Ecco il senso del futuro anteriore, un tempo verbale che sposta il pensiero in avanti, e fa vivere la fatica necessaria come in buona parte già compiuta.
Dopo che ti sarai diplomato, ti aspetta in regalo la moto nuova.
Ai primi dieci che si saranno iscritti al nostro corso, un libro in omaggio.
Appena avrai finito i compiti, puoi andare a giocare.
In quest’ultima frase, avrai finito, rispetto a finirai, il futuro finisce nell’ausiliare, la parte debole del pensiero. La parte semanticamente rilevante va nel passato, finito. È la suggestione del ribaltamento temporale: ti proietti nel futuro, e lo percepisci come già noto, quindi più agevole.
È un futuro anteriore anche l’I have a dream di Martin Luther King: quello era un obiettivo, non un sogno, ma raccontarlo con quella passione suggestiva, dettagliata, visibile, l’ha reso vero.
(Ok le premonizioni, ma piano a prendere i sogni per realtà: frasi tipo If you can dream it you can do it lasciamole a Walt Disney o a gente simile, altrimenti hai voglia comportamenti dissennati!).
Appendice musicale
Come si chiude, ora, una riflessione sul futuro?
Si è aperta con Futura, vediamo se si riesce pure a chiudere in musica, sfruttando la sterminata offerta disponibile sull’argomento. C’è caso che ne esca una specie di play list, magari viene buona per festeggiare una ricorrenza in anticipo, o per suggerire a qualcuno (un po’ gnucco) di farlo.
Niente ordine cronologico: solo qualche tema.
C’è la promessa di amore eterno: fra tutte, l’intramontabile I will always love you di Dolly Parton, regina del country, portata al successo mondiale da Whitney Huston.
C’è la proiezione del rimpianto: One day, di Asaf Avidan (One day baby, we’ll be old, and think of all the stories that we could have told).
C’è l’incitazione a stare sul presente anziché farsi angosciare dal futuro: Adesso, di Diodato e Roy Paci (Adesso è tutto ciò che avremo), o Domani mai di Claudio Baglioni (Domani non arriva mai).
C’è l’incoraggiamento a superare le difficoltà: We shall overcome, in un’infinità di versioni, da quella di Pete Seeger, che riprende l’originale gospel, a quella di Bruce Springsteen o quella di Joan Baez per il presidente Obama.
C’è l’accettazione un po’ zen del destino: Que sera sera di Doris Day (Whatever will be will be), o Che sarà di Josè Feliciano (Che sarà della mia vita, chi lo sa), di cui Achille Lauro ha conservato solo il titolo, fino alla mitica Let it be dei Beatles.
C’è la fatica del crescere, con Quando sarai grande di Edoardo Bennato, o Diventare grandi di Samuel e Willie Peyote (Secondo te cosa vuol dire diventare grandi? Uscire meno quando c’hai trent’anni? Perdere i capelli, perdere di vista i fratelli / E incontrarli ai matrimoni e ai compleanni).
C’è la speranza di miglioramento: Domani è un altro giorno di Ornella Vanoni.
E per chiudere il cerchio, c’è la fiducia:
Aspettiamo che ritorni la luce
Di sentire una voce
Aspettiamo senza avere paura, domani.
ancora Lucio Dalla, Futura