Money / Get away
You get a good job with more pay and you’re okay
Money / It’s a gas/ (…) New car, caviar, four star, daydream
(…) Money / Get back
Money, Pink Floyd
L’attacco di Money fotografa due tipici atteggiamenti verso i soldi: quando li hai, ti affretti a spenderli (Money, get away!); quando non li hai, non vedi l’ora che tornino (Money, get back!). Nel video, uno scroscio di monete, al ritmo del registratore di cassa, ci trascina in un’estasi con sfilate di moda, macchine di lusso, yacht, casinò, alternati a file di operai, fabbriche, scuole, città frenetiche. Pacchia per alcuni, per altri condanna.
La penna di Roger Waters si burla così dell’avidità del consumismo: e proprio Money, nel 1973, segna il top d’incassi della band. Scherzi del contrappasso? Forse la contraddizione è nel significato stesso di “soldi”, parola che agisce come una turbina di emozioni legate sia alla prosperità sia alla scarsità. Da un lato successo e sicurezza, dall’altro ansie, tensioni, scontri, guerre.
Presenza e assenza di soldi influenzano il linguaggio quotidiano, il tono delle relazioni interpersonali. Lo dice pure Mahmood, vincitore di Sanremo 2019: «Il pezzo Soldi non parla di soldi a livello materiale: parla di come fanno cambiare i rapporti all’interno di una famiglia».
Unità tangibile o astratta?
Si parte, guarda caso, dal latino: solidus (sottinteso nummus, moneta) era il nome di una moneta, prima d’oro e poi d’argento, del tardo impero romano. Moneta solida, moneta intera, in contrasto alle monete meno pregiate, che ne rappresentavano una parte. Un soldo è l’unità di partenza, dove si comincia a contare una somma.
Fino agli anni ’40, in Italia il soldo valeva 5 centesimi di lira. Oggi la parola al singolare si trova solo in espressioni quali stare al soldo di…, cioè stare alle dipendenze, o non avere un soldo.
Si usa in genere al plurale, in un significato materiale, di mezzo di scambio e pagamento, ma più spesso con una connotazione astratta, sinonimo di ricchezza e di status sociale. Lo stesso significato assunto da “denaro”, altra parola nata nella storia economica latina (il numerale deni, “di dieci in dieci”, indicava dieci assi di bronzo), ma poi sublimatasi e resasi quasi eterea, fino a indicare il seme più pregiato nelle carte da gioco.
Una materialità che si trasfigura in saggezza popolare, come in alcuni proverbi(Chi non ha denaro in borsa abbia miele in bocca, Meglio spendere i soldi dal macellaio che dal farmacista, I soldi son come il letame: a nulla servono se non li spandi) e in espressioni del linguaggio comune, come avere le mani bucate, avere il braccino corto, o costare un occhio della testa (qui il senso è ammantato di leggenda: pare che un condottiero spagnolo, colpito a un occhioda una freccia, vantasse così la propria dedizione agli interessi della Corona).
Monete di cioccolato e criptovalute
Ma di che cosa sono fatti i soldi? La nostra prima esperienza con la loro materialità sta nei ricordi d’infanzia: le monete di cioccolato in carta dorata, e poi la paghetta, la prima indipendenza, che prendeva subito la forma dei desideri: figurine, caramelle, fumetti, ninnoli vari. Raro avere la lungimiranza di metterli da parte per sogni più grandi.
Rapidamente poi passiamo dalla paghetta allo stipendio (sì, non così rapidamente) e ci troviamo adulti, con forme diverse: il mutuo, le bollette, il pane da mettere in tavola. Cambiano anche i luoghi dei soldi: non più solo negozietti, tabaccherie, edicole, ma banche, compagnie assicurative.
E volessimo scendere un po’ più a fondo in questo mondo, eccoci di nuovo nell’intangibile: pacchetti azionari, titoli di stato, ora anche criptovalute. Tutte scelte operabili, tra l’altro, dal nostro virtualissimo home banking.
Partiti dal solidus nummus,attraverso la cioccolata, arriviamo a misteriose sequenze di zeri e uno.
Lo sterco del diavolo
Questo indefinito materiale/immateriale ci rende faticoso persino maneggiare la parola stessa. Che il denaro è lo sterco del diavolo, del resto, l’ha detto uno dei padri della Chiesa cristiana, San Basilio Magno. E di tanto in tanto, menti illustri lo ridicono: Dante, Martin Lutero, Papa Francesco.
Parlare di soldi sembra volgare. Può generare un senso di sporco, basso, poco elegante.
Ma tutto ciò non sarà perché siamo mal-educati a parlare di soldi?
Negli Stati Uniti già dai primi del 1900 s’insegna la Family and Consumer Sciences nelle scuole, come materia al pari delle altre: dalla ristorazione ai principi base di meccanica e idraulica, da come organizzare la contabilità di una famiglia o piccola azienda a come progettare investimenti di vita. In quella cultura pragmatica, parlare di soldi non è un tabù. Anche in Finlandia e Svezia i programmi di medie e licei prevedono queste materie.
In Italia, Economia e Diritto sono presenti solo in alcuni indirizzi di scuola superiore: per lo più sono lasciati alla libera iniziativa, agli studi universitari o agli eventi della vita. Ma conoscere il rapporto con i soldi “a proprie spese” può condannare a viverlo con sofferenza e solitudine, rende più difficile scegliere in libertà.
Competenza di cittadinanza
Giovanna Boggio Robutti, direttrice generale di FEduFf, Fondazione per l’educazione finanziaria e al risparmio: «Da quando siamo nati in seno all’ABI, dieci anni fa, siamo impegnati nel togliere dai soldi quell’alone di negatività, e nel posizionarli come strumento di benessere e come valore per la legalità e per la sostenibilità; in linea con l’articolo 47 della Costituzione: ‘La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme’.
«Certo, c’è ancora molto da fare. Per esempio, ogni anno Consob fotografa la scarsa inclusione delle donne nelle scelte legate al denaro. E non è la sola iniquità economica nel nostro Paese: c’è anche quella geografica, con pesanti disparità di accesso alla cultura finanziaria tra Nord e Sud, e tra grandi e piccoli centri. Dal 2024, con il DDL Capitali, l’educazione finanziaria entra in tutte le scuole, di ogni ordine, grado e indirizzo, come parte dell’educazione civica: chissà che questo dia una spinta al considerarla una competenza di cittadinanza indispensabile».
Patrimonio/matrimonio: di chi è il “dovere”?
Le parole patrimonio e matrimonio hanno una struttura comune: pater e mater, più la parola munus, dovere. Alla lettera, il patrimonio è il dovere del padre, il matrimonio quello della madre. Sorvoliamo sulla miopia della ripartizione. In ogni caso, patrimonio è ciò che appartiene al padre e verrà lasciato ai figli, per estensione l’insieme dei beni materiali e immateriali. Matrimonio è l’unione formalizzata di due persone, che, almeno secondo l’etimologia, come dice la Crusca, include la procreazione:
matrimonio, rispetto ad altri termini che vengono correntemente impiegati con significato affine, pone, almeno in origine, maggiore enfasi sulla finalità procreativa dell’unione: l’etimologia stessa fa riferimento al “compito di madre” più che a quello di moglie, ritenendo quasi che la completa realizzazione dell’unione tra un uomo e una donna avvenga con l’atto della procreazione, con il divenire madre della donna che genera, all’interno del vincolo matrimoniale, i figli legittimi.
Anche se oggi il senso comune di questi termini è più neutro, il pregiudizio di genere che è dentro la storia produce effetti evidenti sull’approccio che uomini e donne hanno verso i soldi.
La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, nel saggio Dovremmo essere tutti femministi, racconta un episodio curioso. In auto con un suo amico, un passante li aiuta nella manovra in un parcheggio; lei prende dei soldi dalla borsa e glieli porge, come mancia. Quello li prende, felice, e ringrazia il suo amico: i soldi, anche se glieli dava lei, dovevano essere di lui.
È vero che, storicamente, le donne ricevono un’educazione più limitata sul denaro. La fotografia che esce dal libro Le signore non parlano di soldi, di Azzurra Rinaldi, è la convinzione comune che se una donna tratta temi legati al denaro può risultare ambiziosa e venale, conseguenza del sistema patriarcale e del suo impatto sulla violenza economica e sulle fatiche dell’emancipazione.
Secondo la Global Thinking Foundation, solo il 58% delle donne italiane ha un conto corrente a proprio nome, il 24,3% ha un conto personale e uno cointestato, il 12,9% ne ha solo uno cointestato (partner o altro familiare), il 4,8% non ne ha proprio. In sostanza, quasi 1 donna su 5 non ha un conto personale. Dal punto di vista del lavoro, poi, l’ultimo report di Fondazione Libellula indica che il 46% delle donne con lavoro dipendente non ha mai chiesto un aumento.
E non è un tema solo italiano. Linda Babcock, economista della Carnegie Mellon University, nel libro Women Don’t Ask mostra che, sul lavoro, solo il 12,5% delle donne negozia il salario d’ingresso, contro il 52% degli uomini.
È vero anche che la gestione delle spese quotidiane è gestita in genere dalle donne. Non solo il pocket money, anzi, tutto il flusso di cassa, che richiede una pianificazione piuttosto raffinata: questo mese l’assicurazione, il prossimo la scuola di danza, quello dopo l’acconto sulle vacanze.
Cambiassimo prospettiva? Sicuri che i soldi siano di chi li possiede? In economia i soldi sono di chi li spende. E a livello globale, le donne incidono sulla maggior parte dei consumi: per ridimensionare il gender gap economico occorre che diventino consapevoli del loro “valore commerciale”.
Lo si vede anche nel film C’è ancora domani di Paola Cortellesi: Delia fa molti lavori, attorno a lei ruota la vita e l’economia della famiglia. Subisce le varie prevaricazioni del marito, subisce soprattutto la sua violenza, deve persino consegnargli i soldi che guadagna, ma può anche facilmente ingannarlo, e tenerne un po’ per sé, per coltivare i propri sogni. Non li realizzerà grazie ai soldi, ma troverà anche da lì l’energia per realizzare, alla fine, quello più importante (no spoiler).
Alla ricerca della felicità
Il denaro non è la felicità, ma ci permette di essere infelici in modo più confortevole
Serviva Oscar Wilde per convincerci che i soldi non comprano la felicità?
Certamente non la comprano a livello personale. Ma nemmeno a livello sociale. Può esser vero che la lingua del consumo confina con quella della felicità: l’espressione fare shopping, per esempio, non indica solo un atto di acquisto, coinvolge concetti di autostima, gratificazione e status sociale; e investire non si limita al campo finanziario, si estende a scelte di vita e relazioni. Come è vero che obiettivi e progetti importanti neanche cominciano, senza soldi.
Tuttavia, il benessere complessivo di un Paese è descritto da molteplici fattori. Una buona metrica universale sembra essere l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, che tiene conto di salute e istruzione, oltre che del reddito pro capite.
I soldi sono un linguaggio
I soldi non esistono, sono numeri su un display
Ma spesso stabiliscono anche il valore di chi sei
Tanto li conti solo se non li hai
Quando li metti in mostra tu che prezzo ti dai?
Willy Peyote feat. Speranza & Jake LaFuria, I soldi non esistono
Esistono, esistono, i soldi, altro che solo numeri su un display. Magari non stabiliscono il valore di chi siamo, ma sono di certo un linguaggio per comunicare stili, obiettivi, valori.
Limitiamo qui a poche righe un concetto che prende molte pagine nei trattati di economia: la differenza tra costo e prezzo. Il costo è la quantità di soldi di cui devo disporre per ottenere un bene: un numero su un cartellino. Il prezzo è ben di più: è ciò che sono disposto a pagare per ottenere quel bene, più il valore che gli attribuisco. Èuna componente essenziale della percezione: se è basso, posso pensare di aver lì un’occasione, oppure un valore scarso. Se è alto, penso all’avidità del venditore oppure a una grande qualità. È il mix tra il mio senso di bisogno e l’unicità/rarità dell’offerta. È evidente che le scelte che segnano una svolta nella nostra vita hanno un costo, un prezzo, un valore.
La parola “soldi” è dunque uno specchio linguistico che riflette le dinamiche complesse della società. Da semplice unità di scambio, assume poi ruoli molteplici, influenzando il modo in cui percepiamo, comunichiamo, viviamo. Esplorare il linguaggio dei soldi può illuminare aspetti profondi della nostra cultura. Perché il rapporto che abbiamo con i soldi racconta la storia di chi siamo, della famiglia e della società che ci hanno influenzato. Insomma, molto di noi.
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Può aiutarci qui il ricordo di Zio Paperone che si tuffa nei fantastiliardi. Il suo successo parte da un’infanzia disagiata, da un lavoro umile e dalla prima moneta guadagnata, la Numero Uno. Il suo bene più prezioso, obiettivo rincorso dalla Banda Bassotti. Valore reale: un centesimo di penny. Niente. Eppure Paperone la custodisce con cura: nulla sarebbe stato senza quel cent. È il sogno di una vita diversa, i sacrifici compiuti per raggiungerla. È il solidus nummus da cui tutto è partito.