Il caseificio 4 Madonne ha emesso mini-bond da 6 milioni e rendimenti invitanti. Il parmigiano va in Borsa offrendo agli investitori le forme in garanzia. Un nuovo canale (complementare ma non alternativo) al sistema bancario
Un’azienda dell’agroalimentare va in Borsa. Emette obbligazioni. E come garanzia offre quello che ha di più prezioso: le forme di Parmigiano Reggiano. È la storia di 4 Madonne Caseificio dell’Emilia, una cooperativa modenese che ha emesso un mini-bond per finanziarsi. Sei milioni di euro da incassare subito e ripagare nel 2022, con una cedola del 5% l’anno. Non male, visto che i Btp decennali si fermano all’1,45%.
Il parmigiano in Piazza
Sono ancora poche le imprese dell’agroalimentare che utilizzano questo strumento. Per diffidenza o per mancanza di requisiti. “È stata un’idea di un nostro consulente”, dice, Andrea Nascimbeni, presidente di 4 Madonne. “Non è stato facile decidere, anche perché pensavamo che i contadini potessero prenderla male. Non è stato così, i soci sono stati d’accordo”.
E così le forme di parmigiano (la cooperativa copre circa il 2% della produzione totale) si sono ritrovate nel mondo della finanza. Letteralmente. Perché, per emettere un’obbligazione (e soprattutto convincere gli investitori) non basta essere un’impresa solida (da 23,5 milioni di ricavi, ebitda a 1,7 milioni e debito finanziario netto a 21,8 milioni). Servono garanzie. Il caseificio ha offerto le forme che stagionano nei suoi magazzini. Un tesoro di latte e tradizioni che copre il 120% dell’emissione, circa 7,2 milioni. Tradotto: se il caseificio non dovesse riuscire a ripagare il debito, agli obbligazionisti andrebbero le forme di parmigiano (da mordere o liquidare).
Oltre la banca: perché i mini-bond
Il caseificio si assicura così un po’ di linfa. Anche perché la prima cedola sarà staccata tra 24 mesi. Due anni per crescere, con l’impegno di dover ripagare un debito ma senza l’affanno di scadenze immediate. Quello che serve a un’impresa produttrice di formaggi stagionati, che hanno bisogno di 14-15 mesi di riposo.
I mini-bond diventano così un canale complementare (ma non sostitutivo) di quello bancario. “Nel 2015 – racconta Nascimbeni – le banche ci hanno fatto faticare. Non tutti i fidi (70-80 milioni in scadenza) sono stati rinnovati. Con il rischio di non pagare fornitori e soci. Questo non ci ha permesso di avere la giusta tranquillità per organizzare il futuro”. È il circolo vizioso nel quale si trovano molte Pmi. Le banche, spesso scottate da crediti deteriorati, sono sempre più caute. Le aziende, con meno liquidità a disposizione, rischiano di non ripagare i propri impegni e finiscono sotto la lente della Centrale rischi. Il rating dell’impresa peggiora, condizionando prestiti futuri.
Reperire risorse attraverso altri canali, come quello obbligazionario, contribuisce a ridurre gli impegno con le banche e migliorare la valutazione del credito. Ecco perché i mini-bond non si sostituiscono agli istituti ma aiutano le imprese che si presentano allo sportello.
Ma la Borsa non è per tutti
Nascimbeni è convinto che “possano essere un ottimo strumento, che per ora non si conosce abbastanza”. Un’opportunità anche per le aziende dell’agroalimentare. Che “possono offrire una garanzia sia finanziaria” (un bilancio solido, quando c’è, e ritorni golosi) “che materiale” (le forme di formaggio). Una doppia rete di protezione che “sarà sempre più richiesta dagli investitori” in un mercato caratterizzato da instabilità e ritorni contenuti.
Gli inconvenienti non mancano. I mini-bond nell’agroalimentare sono adatti ad aziende che “hanno magazzino”. Cioè imprese che hanno asset da maturare, invecchiare, stagionare. Ad esempio produttori di formaggio, salumi, vino. Ma non solo. Servono anche bilanci trasparenti. E solidi. Perché l’emissione di un mini-bond, spiega Nascimbeni, “ha costi – come la stessa presentazione in Borsa Italiana – che su valori piccoli non si ammortizzano”.
Un mercato da costruire
Il caseificio 4 Madonne è stato il primo produttore di parmigiano a emettere un mini-bond. Ma non la prima azienda dell’agroalimentare. Si tratta di un sentiero aperto da meno di un anno. Le aziende che ci hanno provato si contano sulle dita di una mano. La prima è stata Rigoni, produttrice di marmellate e miele biologici, con un’obbligazione da 7 milioni. Sono arrivati poi Pasta Zara, con un’emissione da 4,5 milioni, e la Cooperativa Vitivinicola Moncaro, con 5 milioni. Importi simili, fatta eccezione per l’emissione più consistente fatta fino a ora: lo scorso aprile, Ferrarini (storico produttore emiliano di salumi e formaggi) ha raccolto 30 milioni.
Strumento in più per il made in Italy
In tutti i casi, il rendimento (anche alla luce di un mercato obbligazionario dai ritorni ridotti) è invitante. E come sempre, in rapporto al rischio. Questo non significa che le imprese sono sull’orlo del fallimento. Ma che l’emissione è poco liquida e quindi difficile da disinvenstire (cioè da vendere prima della scadenza naturale). Anche per questo motivo, i mini-bond dell’agroalimentare si sono rivolti a investitori istituzionali e non ai singoli risparmiatori. Si tratta comunque di uno strumento in più per il made in Italy. Uno strumento che potrebbe aiutare le Pmi italiane a rimanere italiane. Nulla vieta che le obbligazioni siano acquistate da investitori esteri. “Ma si tratta di un finanziamento e non di un acquisto”, sottolinea Nascimbeni. Che intanto ha incassato “i complimenti di molte altre cooperative”. L’operazione “ha avuto eco e non ce lo aspettavamo. Alcune imprese ci hanno chiesto informazioni. Il parmigiano ha dato visibilità e fiducia” a uno strumento ancora poco utilizzato. Forse perché la finanza è ancora vista come una parolaccia. Ma l’aria (anche tra terra e allevamenti) sta cambiando.
Paolo Fiore
@paolofiore