Un locale di Zhangjiagang (Cina) fa pagare 14 cent di euro a testa, poi definiti illegittimi dalle autorità, per purificare l’aria dallo smog. Ma quante volte ci capita di sborsare di più per servizi o ingredienti senza possibilità di verifica?
Una volta era un modo di dire fra il serio e il faceto, per prendersela con il governo di turno: “Ci faranno pagare pure l’aria che respiriamo”. Bene, in uno dei Paesi più inquinati del mondo sta accadendo. E non solo perché in Cina vanno a ruba le bombolette di aria pura canadese Vitality Air ma anche per un singolare avvenimento di pochi giorni fa. Che tuttavia, nella sua infinita piccolezza, racchiude una serie di sviluppi che potrebbero trovare spazio nel mondo del cibo e della ristorazione. Ma non solo.
Il fatto
A quanto pare – l’ha riportato l’agenzia nazionale Xinhua – un ristorante della città di Zhangjiagang, nella provincia di Jiangsu, quella della storica capitale Nanchino e confinante con Shanghai, avrebbe fatto pagare ad alcuni clienti una specie di “tassa sull’aria pulita”. Nel dettaglio, avrebbe aggiunto circa uno yuan (equivalente a 14 centesimi di euro) per ciascun commensale. La ragione? Ammortizzare i costi della purificazione dell’aria all’interno nel locale. I purificatori nella Repubblica popolare ostaggio dello smog sono ovviamente d’obbligo negli edifici di chi può permettersene l’acquisto e l’installazione. Fra 2013 e 2014 il 5% delle famiglie cinesi delle città più ricche – Pechino, Shanghai, Guangzhou e Shenzhen – ha infatti acquistato dispositivi di questo tipo. Così molti locali pubblici. Tuttavia neanche questi risolvono ogni problema quando i livelli delle polveri sottili raggiungono livelli record come quelli di questi giorni a Pechino: decine di volte sopra la soglia di sicurezza.
Le proteste
Come ha spiegato anche la Bbc, il ristorante in questione aveva installato sistemi di depurazione dell’aria dopo casi simili che avevano perfino ridotto la visibilità cittadina a meno di cento metri. Ma non tutto è andato per il verso giusto: dopo una sfilata di lamentele – comprese quelle di un cliente che ha pubblicato il conto sul social network locale Weibo – sono intervenute le autorità locali stabilendo l’illegittimità della richiesta. Insomma, l’aria purificata non rientrava nella libera scelta dei clienti (curioso che un ufficiale municipale abbia fatto proprio ricorso al tema della libertà per spiegare l’accaduto) e dunque non poteva essere addebitata come un servizio accessorio. Molti altri utenti, racconta ancora Bbc, si sono tuttavia detti disponibili a pagare un’aggiunta del genere per poter pranzare e cenare cullati da un’aria certo non pulita ma almeno alleggerita di una buona parte delle particelle più pericolose.
Cosa significa per noi
L’episodio non si esaurisce tuttavia nella mera cronaca ambientale dall’altra parte del pianeta. Ci racconta al contrario qualcosa sull’esperienza della ristorazione e su cosa potremmo o non potremmo pagare, nel futuro prossimo, per ciò che finisce nel piatto e per il modo e il contesto in cui mangiamo. Nel nostro caso, già ora, è tutto il mondo biologico (più o meno effettivo, vagamente pseudotale) a darci per esempio un segnale di questo fenomeno: spesso i menu espongono piatti che si dice realizzati con ingredienti particolari, assolutamente genuini. Ma i clienti non hanno alcun controllo su ciò che accade in cucina né tantomeno sui fornitori del ristorante. E così, come gli avventori cinesi, si ritrovano in qualche modo a pagare come elemento aggiuntivo un parametro – quello biologico – sul quale non hanno alcuna garanzia. Tranne che nei locali stellati, un ristorante è un po’ come un aereo: nel migliore dei casi sai il nome e il cognome del “pilota” e nient’altro. Devi (af)fidarti.
Insomma, al di là del prestigio di un posto che scegliamo per mangiare, l’inquietante storiella cinese ci spiega che l’universo della ristorazione deve cambiare. E deve farlo proprio al cuore della propria proposta: gli ingredienti dei piatti, lo stato e la gestione della cucina, il contesto in cui siamo serviti. Non arriveranno a farci pagare l’aria che respiriamo ma chissà quante volte abbiamo sborsato ben più di 14 centesimi per inghiottire una raffinata portata spacciata per biologica, genuina, preparata con i prodotti del territorio, a km 0 e chi più ne ha più ne metta che di queste caratteristiche non aveva neanche l’ombra.