La nostra intervista al comico: “una sorta di Rompipallone, fatto attraverso le immagini e due battute”
Dalla televisione, alla carta stampata, fino ai social. Gene Gnocchi lo sport, il calcio in particolare, lo ha prima praticato – da professionista, fino alla serie C – e poi raccontato attraverso tutti i mezzi di comunicazione, ma sempre mantenendo la sua caratteristica ironia. L’ultimo esperimento del comico emiliano nel collegare i mondi del pallone e dell’intrattenimento si chiama Europei con Gene (#EuropeiConGene) e va in onda ogni giorno su Instagram, dall’inizio di Euro 2020.
Gli ingredienti principali del nuovo format, racconta l’artista a StartupItalia, sono due: “scrivo una battuta, in modo simile a quello che faccio per la Gazzetta dello Sport, per poi tradurla in parlato e in immagini. Non è un’operazione semplice: chi, come me, ha avuto a che fare per anni con una comicità e una satira fatte di tempi più lunghi e rarefatti, deve abituarsi a una sintesi estrema, non sempre facile da conciliare con il proprio modo di esprimersi”.
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«Nasce da motivi diversi. Da anni mi interesso di calcio, ci ho anche giocato per parecchio tempo. A questo interesse si sono aggiunte la possibilità e necessità di aumentare la visibilità su Instagram: unendo le cose è nato una sorta di Rompipallone attraverso le immagini, che in una o due battute racconta la giornata appena trascorsa del Campionato europeo».
Finora ha avuto il riscontro che si aspettava?
«Direi di sì, anche se non ho sempre sotto controllo in modo preciso i numeri e le statistiche. Mi sembra comunque una strada percorribile, anche se alcuni aspetti possono essere di certo migliorati. L’intenzione è quella di riuscire a creare un appuntamento fisso e proseguire anche con il racconto della prossima stagione, dal campionato alla Champions».
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«La brevità del mezzo cambia tutto. Nel caso di Europei con Gene, ci sono due fasi da seguire. Innanzitutto, scrivo una battuta, in modo simile a quello che faccio per la rubrica della Gazzetta dello Sport, per poi tradurre questa scrittura in parlato e in immagini. Non è un’operazione così semplice: chi, come me, ha avuto a che fare per anni con una comicità fatta di tempi più lunghi e rarefatti, deve abituarsi a una sintesi estrema, non sempre facile da conciliare con il proprio modo di esprimersi».
A questo punto mi chiedo se esista o meno un punto di contatto tra la comicità in tv e quella sui social, perlomeno in ambito sportivo.
«Qualcosa in comune c’è. Faccio un esempio: di recente, ho realizzato una puntata zero di un programma televisivo, tenendo presente che probabilmente alcuni spezzoni dell’episodio sarebbero poi stati utilizzati per i social. Ormai, anche in tv si lavora con la consapevolezza che un prodotto molto più lungo debba essere strutturato in un modo per cui alcuni segmenti possano essere estrapolati e adattati per i tempi brevi di Facebook o di Instagram. È un’esperienza interessante e in parte l’avevo già vissuta con la trasmissione Gnok Calcio Show, che ha dato spunto, con le sue rubriche, a molti contenuti oggi in voga sui social. A distanza di qualche anno, si può dire che l’intuizione del programma era giusta».
Un aspetto chiave dei social sta nell’avere avvicinato una platea sempre più vasta a settori, prima considerati appannaggio di professionisti. Così è stato anche per l’intrattenimento: lo considera un processo di democratizzazione o di banalizzazione del mestiere?
«È nella mia indole cercare di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. C’è però da dire che anche il rapporto dai social alla tv presenta le sue difficoltà. Inizia un po’ a stufarmi il ragionamento per cui i casting televisivi e professionali si fanno in base ai follower che uno ha. E spesso è un ragionamento controproducente: non c’è una traduzione automatica del numero di follower in share televisivo, anzi, quasi sempre questo non accade. In sostanza, credo comunque si tratti più di una democratizzazione: è giusto sfruttare i social per farsi conoscere, guadagnare popolarità e portarla anche in tv. L’importante è che la quantità di seguaci su Facebook, Instagram o Tik Tok non sia l’unico elemento fondante, in base al quale scegliere chi invitare nei programmi televisivi».
Nel corso della carriera ha trattato non solo lo sport, facendo anche satira politica e raccontando la società divertendo, ma sempre con occhio critico. Ne è un esempio il suo ultimo libro “Il gusto puffo”, dove, attraverso una serie di racconti ironici e un po’ strampalati, sviscera i temi più importanti dell’attualità. Perché questo titolo?
«Il gusto puffo, negli anni ’90, è stato qualcosa che nessuno sapeva cosa fosse. Lo si metteva nei gelati, senza sapere esattamente da che cosa fosse composto. Ed è più o meno quello che succede nel momento storico che viviamo oggi: come nel gusto puffo prevalgono i coloranti, qualcosa che fa figura e si mostra, ma di cui, alla fine, si fa fatica a trovare la sostanza».
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«Se potessi scrivere un altro racconto, sceglierei di farlo sulle radio private».
Perché?
«Mi incuriosisce molto l’argomento delle radio private. In particolare, scriverei di una fantomatica emittente chiamata “Radio zeppola”, dove tutti i conduttori radiofonici sono accomunati dal fatto di avere la zeppola».