La nostra intervista a Raffaele Sogni, esperto di videogiochi. Ci ha raccontato perché le avventure di Link continuano ad affascinare. Preparate la vostra console
Miglior titolo della storica saga di Zelda, miglior titolo mai girato su Nintendo Switch. Gli elogi per The Legend of Zelda: Breath of the Wild si accumulano fin dal 2017, anno in cui il videogioco ha fatto la sua comparsa sconvolgendo il panorama videoludico e conquistando milioni di fan in giro per il mondo. Sei anni dopo è giunto il momento dell’attesissimo seguito. Da oggi, venerdì 12 maggio, è disponibile The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, opera potenzialmente rivoluzionaria sotto diversi aspetti. Già dai video di gameplay i videogiocatori hanno avuto modo di apprezzare un sacco di novità, tra la possibilità di assemblare armi al proiettarsi in cielo per ammirare la mappa di Hyrule altezza nuvole, correndo su isole volanti. Per chi ci segue e conosce la nostra passione per i videogiochi diamo un consiglio che viene dal cuore: se non avete mai giocato a Breath of the Wild non privatevi di questa possibilità. Se invece lo avete concluso e platinato, ingannate l’attesa che vi separa dall’avvio di The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom leggendo l’intervista a Raffaele Sogni, firma storica del giornalismo videoludico e già caporedattore di Official Nintendo Magazine. E, ovviamente, non perdetevi la nostra recensione.
Poco più di un mese fa, quando è uscito il film dedicato a Super Mario vi abbiamo raccontato la vita straordinaria di Shigeru Miyamoto, padre di alcune delle IP più amate di tutti i tempi, Zelda compreso. Nella cosmogonia di The Legend of Zelda c’è un particolare interessante, embrione di una logica open world che ha raggiunto il suo apice in Breath of The Wild su Nintendo Switch e che ora viene ulteriormente sviluppata in Tears of the Kingdom. Da bambino, Shigeru aveva visitato i parchi vicino alla città di Kobe, in Giappone, e dopo una lunga passeggiata si era ritrovato di fronte a un grande lago. La meraviglia di quel ricordo lo ha ispirato a ideare un videogioco nel quale il gamer ha campo libero ed è spinto da una fanciullesca curiosità. «Sono convinto che molti generi oggi non esisterebbero se nel 1986 non fosse uscito The Legend of Zelda – afferma Sogni -. Zelda non è stato l’artefice del genere open world, che invece è stato uno dei primi generi inventati in assoluto, con il gioco testuale Colossal Cave Adventure uscito sei anni prima. Ma è indubbiamente il gioco che l’ha perfezionato e ha permesso agli sviluppatori di coglierne le reali potenzialità».
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Dagli anni ’80 le innovazioni in console si sono accumulate, un’ondata dopo l’altra. Ma la freschezza di Zelda è rimasta intatta, come un’eterna rugiada estiva. Un’eredità nascosta, che solo un occhio attento è in grado di scorgere. «The Legend of Zelda è stato il primo gioco a introdurre i salvataggi manuali e i profili utente, una rivoluzione che utilizziamo ancora oggi. E poi ancora l’acquisto in game di armi e oggetti, oltre a una innovativa rappresentazione dei dungeon come in A Link to the Past. Oppure l’uso del cavallo negli spostamenti introdotto per la prima volta in Ocarina of Time».
Aspetti che contemplano il game design. Ma le storie di Link poggiano su qualcosa di ancora più granitico. «Zelda ha anche un altro grande merito. A partire dal suo primo episodio ha permesso di vedere i videogiochi sotto un aspetto del tutto nuovo: quello poetico». Lo abbiamo respirato a pieni polmoni in Breath of the Wild, perdendoci in Hyrule tra missioni principali e secondarie, indugiando su uno scorcio, cavalcando senza una meta per il solo gusto di provare un’esperienza. «I videogiocatori amano il personaggio di Link, ci si sono affezionati da quasi 40 anni. Vivere situazioni piacevoli, appaganti e stimolanti come le offrono indubbiamente i giochi di Zelda crea una certa dipendenza da quel tipo di esperienza. Zelda è un porto sicuro, fino a prova contraria ovviamente, per chi cerca un certo tipo di situazioni, di ambientazioni e di libertà».
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In attesa di giocarci, in molti si chiederanno come mai Nintendo abbia scelto di riproporre la mappa di Hyrule, esplorata in ogni dove dal 2017 in poi. Non era mai successo prima in un titolo della saga. Forse un modo per partire da basi già ottime e replicare quella killer app? «A quanto ho letto e visto dai trailer, l’area di gioco è decisamente più grande e con ambientazioni molto diverse. Da questo punto di vista la vedo un po’ come una espansione di World of Warcraft». Ma state tranquilli: siamo lontani anni luce dalla copia cartacarbone di Breath of The Wild. «Sono parecchio in hype per la possibilità di unire gli oggetti e creare veicoli o chissà cos’altro. La chiave del successo, in parte annunciato, di questo nuovo capitolo potrebbe stare proprio qui: aggiungere elementi di gameplay totalmente imprevedibili e un approccio alle avversità sempre nuovo. Invece speravo che non ci fosse più la rottura delle armi, e delle palle, ma questa cosa evidentemente a Nintendo piace un sacco e ce la teniamo».
Prima di lasciarvi a The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, che la critica sta ricoprendo di 10/10, abbiamo chiesto all’esperto un commento sull’eterna giovinezza dell’IP. Come può un videogioco lanciato negli anni ’80 riuscire a combattere ad armi pari in un mercato di Tripla A dove a gameplay eccellenti le software house aggiungono carichi da novanta di storytelling e grafiche cinematografiche? «La saga di Zelda, caso rarissimo, è riuscita ad attraversare tutte le epoche videoludiche, combattendo non solo contro i suoi concorrenti, ma a volte anche contro un hardware che ne limitava le potenzialità. Per ora – ha concluso Sogni – mi pare che Zelda resti una saga che mantiene la fiducia incondizionata dei fan. Ed è merito suo».