Cucina giapponese, efficienza italiana: con questa formula dieci anni fa nasceva quella che oggi è una catena di take away e consegne a domicilio di uramaki, gunkan, temaki e chirash. Ora, grazie a un’iniezione di capitali da parte di Nuvolab, la società mira a superare le mura di Milano
Era il 2007 e i vari Foodora e Deliveroo erano ancora al di là da venire. Una coppia di consulenti aziendali, specializzati nel fare ordine nelle aziende, decisero di metter su un proprio progetto che potesse funzionare proprio come le realtà di cui si prendevano cura. La passione per il sushi e l’inizio dell’invasione del cibo giapponese a Milano, li spinse ad aprire un piccolo locale che oggi, dopo 11 anni, è una realtà che ha attirato i capitali di Nuvolab.
Con un’iniezione di capitali da 500.000 euro, This is not a sushi bar mira a strutturarsi e a travalicare i confini milanesi, per espandersi in altre città. Grazie all’automazione messa in atto solo nell’ultimo anno, attualmente i 4 punti vendita della catena pioniera nel food delivery, è stata in grado di evadere 40.000 ordini per un fatturato pari a 1,4 milioni di euro.
In principio erano le consegne in tram
Un aneddoto sull’origine di This is not a sushi bar racconta di consegne fatte in tram. “Era l’unico modo per iniziare a sperimentare il mondo delle consegne a domicilio, senza investire in motorini. Non sapevamo come sarebbe andata”, ci spiega Matteo Pittarello, presidente e fondatore della società. Partendo a tentoni, i risultati hanno premiato l’idea e presto la “responsabile” delle consegne ha detto basta ai viaggi in autobus. E da lì il gioco si è fatto molto più serio.
Come funziona This is not a sushi bar
“L’intuizione alla base di This is Not a Sushi Bar da sempre è stata quella di coniugare il concetto di fast casual dining con un prodotto di alta qualità consegnato a domicilio, standardizzabile e replicabile su larga scala”, spiega il fondatore. L’azienda ha 4 ristoranti molto piccoli, il più grande è l’ultimo aperto, con una superficie di 100 mq.
“È questo il punto d’incontro per la materia prima – spiega Pittarello – in modo da essere efficienti e lavorare la materia prima in un solo locale, con una sola mano che controlla tutto. Il 90% del fatturato è fatto con take away delivery, ma i nostri ristoranti hanno un look spartano ma allo stesso tempo accogliente, con 15 posti a sedere per pranzo o cene veloci”.
Il segreto del successo di This is not a sushi bar
Secondo Pittarello la scintilla che ha fatto funzionare il piccolo universo di This is not a sushi bar è l’essere non convenzionali. “Sin dall’inizio, non aderire a un modello etnico ci ha liberati dagli stereotipi. Abbiamo fatto della schiettezza sfacciata nella cucina e nell’arredamento dei locali, la nostra cifra stilistica”.
Nel menu infatti è facile trovare commistioni esuberanti come i piatti con sesamo placcato d’oro 24 carati, mischiati ad altri ingredienti della cucina giapponese. Un altro punto di forza della catena è la possibilità di pagare in qualsiasi modo: proprio la multicanalità è uno degli elementi più apprezzati di This is not a sushi bar, che così ha attirato anche Foodora. Infatti, il big player del food delivery sta per integrarsi con l’azienda di Pittarello.
L’iniezione di capitale
A dare man forte alla visione e allo spirito avventuroso di Matteo Pittarello ora ci sono alcuni partner pronti a investire per garantire una crescita rapida e sicura. Nuvolab S.r.l. e Mega Holding S.r.l., insieme con Armando Zappalà, COO dell’azienda, sono pronti a scrivere il futuro di This is not a sushi bar.
“Questa operazione si inserisce in un percorso di discontinuità con il passato (lo scorso aprile, Matteo Pittarello, con Armando Zappalà e altri soci, ha acquisito le quote di controllo degli altri fondatori, ndr), che spinge l’acceleratore sulla sperimentazione digitale, sull’identità e su un modo più moderno di gestire l’azienda, rispettando la nostra vocazione di innovatori del settore. Siamo orgogliosi di poter allargare il progetto grazie all’intervento di nuovi investitori di valore e di esperienza industriale. Ora puntiamo ad espandere la nostra catena di ristoranti fuori Milano, città che ci ha visti nascere come pionieri del food delivery”.
L’obiettivo di espansione prevede l’apertura di 15 locali nei prossimi 4 anni, investimenti per potenziare il marketing e una ristrutturazione del processo aziendale interno. “Crescendo dovremo rivisitare una serie di processi per massimizzare la produzione – spiega il portavoce di This is not a sushi bar -. Per farlo, robotizzeremo alcune operazioni. Ci saranno meno persone in un solo negozio ma, aumentando i locali, aumenteremo sia il numero di persone occupate sia il giro d’affari dell’azienda, migliorandone l’efficienza. In questo gioco ci sono solo vincitori”.
Il futuro del food delivery secondo Matteo Pittarello
Il settore del food delivery è in pieno boom ma, come in tutte le economie di scala, le criticità sono dietro l’angolo. In primo luogo, per garantire un trend positivo al settore della ristorazione il primo passo da fare secondo Pittarello è comprendere che il marketing bisogna farselo da soli.
“I ristoratori sono convinti che la gente entri nel loro locale perché sono bravi. Ma il rischio è che si ripeta lo stesso fenomeno visto nel mondo del turismo. Booking ha massacrato gli alberghi, permettendo alla gente di scegliere ciò che più si adattava alle proprie necessità. Il cliente non è più dell’albergatore, ma dell’aggregatore“. Non fidelizzandolo, è difficile che ritorni, con un conseguente danno per la struttura.
Il secondo punto da comprendere è che la ristorazione non è un settore che ha a che fare con la nutrizione. È più un genere d’intrattenimento. “Per intrattenere devi attrarre – spiega il presidente di This is not a sushi bar -. Se i concorrenti sono il cinema o il teatro, bisogna cambiare il proprio modo di vedere quello che si fa e usare il cibo per intrattenere le persone”.