L’intervista a Simone Cremonini, managing partner di Sinergia Venture Fund. Ottava puntata alla scoperta dei protagonisti dell’ecosistema VC. «Avevo 10 anni e dopo aver visto Wargames ho capito che dovevo avere un accoppiatore acustico»
Se avete letto tutte le nostre puntate dedicate ai protagonisti dell’ecosistema VC italiano avrete ormai capito che non stiamo parlando di persone fatte con lo stampino. C’è chi ha fatto un percorso più standard e chi invece è partito in un laboratorio di ricerca per poi capire che la si può fare pure investendo sui migliori talenti. In questa ottava intervista abbiamo incontrato Simone Cremonini, managing partner di Sinergia Venture Fund: si è presentato con una breve lista di momenti della sua vita in cui qualcosa lo ha segnato, contribuendo a farlo diventare quello che oggi è. «Ho visto da poco Everything Everywhere All at Once, il film che ha vinto l’Oscar: l’idea che ogni più piccola decisione porti a un effetto è affascinante. Senza aver la pretesa di aver messo a fuoco tutti i bivi della mia vita, ho chiari quali sono stati i fattori che mi hanno portato qui».
Film e il Commodore 64
Classe 1973, nato a Milano, Simone Cremonini è stato un nerd quando il termine non era così in voga. «Quando ero ancora bambino iniziavano a circolare in Italia i primi computer consumer, come il Commodore 64. Ricordo che per un Natale chiesi ai miei genitori di regalarmene uno. All’epoca si trattava di macchine con istruzioni per programmare in Basic (linguaggio di programmazione, ndr)». Ad aiutarlo, oltre la passione, c’erano poi le riviste specializzate in edicola che gli hanno spalancato un mondo. «Ho sempre avuto il pallino degli studi scientifici. Forse è per questo che amavo i videogiochi, i robot e i Lego, ma quelli dei set Technic».
Oltre al computer Simone Cremonini ricorda poi un altro elemento fondante della sua vita. «È stato un film, Wargames. Avevo dieci anni quando è uscito al cinema, nel 1983. Il protagonista è un ragazzino del liceo con un computer simile a quello che avevo mio. Soltanto che lui ha un accoppiatore acustico, l’antenato del modem. Per gioco si collega al sistema della scuola per cambiare i voti, ma compone il numero sbagliato e si aggancia a un Mainframe, un supercomputer della Difesa americana». Insomma, una trama da piena Guerra Fredda (non andiamo oltre con gli spoiler). «Fatto sta che, uscito dalla sala, mi dico che anche io devo avere un apparecchio del genere».
Un early adopter
In quella che possiamo definire la preistoria di internet, un gruppo di pionieri sparsi in tutto il mondo si appassionava a una tecnologia fatta senz’altro per pochi. Prima di arrivare al Simone Cremonini adulto, un ultimo passaggio sulla sua adolescenza. «Grazie agli amici di mia sorella più grande sono riuscito ad impossessarmi del primo modem e a collegarmi a Itapac, l’antenata italiana di Internet. Trasmetteva al massimo qualche migliaio di caratteri al secondo». Un po’ come i radioamatori degli anni ’60, così gli early adopter del web masticavano la tecnologia, facendo esperienza e guadagnando terreno rispetto a tutti gli altri.
Durante gli studi in Economia alla Cattolica di Milano, Simone Cremonini non ha abbandonato quel filone, anzi è riuscito a farlo diventare un lavoro. «In realtà quella era la mia passione, il mio giocattolo. Temevo che studiare informatica mi avrebbe fatto diventare un programmatore. E all’epoca non era esattamente il mestiere col fascino di oggi». Anni Novanta, l’Italia accende i suoi primi modem, le famiglie hanno un computer in casa e si inizia a smanettare anche tra non addetti ai lavori. «Grazie alla mia famiglia sono entrato in contatto con aziende per le quali ho fatto le prime consulenze sui siti internet».
Metodo nordico
Quando arriva il momento di entrare nel mondo del lavoro, Simone Cremonini ha iniziato a fare il manager. Ha lavorato in una delle realtà media più importanti in Svezia, quotata in Borsa. «Ho imparato la cultura della pianificazione, a gestire progetti». Con lo scoppio della bolla delle dot.com a inizio millennio il suo entusiasmo per il web non è certo venuto meno. «Vedevo investimenti esagerati su progetti che mi lasciavano perplesso: nel 2001 c’era ancora troppa poca gente che usava il web o col cellulare in tasca». Eppure bastava inserire un riferimento al digitale per guadagnare più credibilità e opportunità di finanziamenti. Successivamente ha trascorso diversi anni in Telecom Italia, dove si è occupato del passaggio al digitale terrestre e ovviamente di innovazione ambito media.
Nel 2019, senza averlo programmato, un’altra sliding door, che lo ha portato a lanciare un fondo di venture capital, Sinergia Venture Fund. «L’idea di base è ridurre il rischio per gli investitori, ed è per questo che andiamo a investire soltanto su società B2B, già strutturate con almeno 1 milione di euro di fatturato l’anno. Sono aziende in cerca del Serie A, in cui investiamo un minimo di 3 milioni di euro». Tra queste ricordiamo Ermes, startup di cybersecurity che ha da poco aperto il proprio round. «In totale abbiamo raccolto 70 milioni di euro e faremo presto la nostra ottava operazione». Nelle scorse settimane lui e il suo socio Giacomo Picchetto hanno annunciato l’ingresso in Alkemia SGR, operatore specializzato nel Private Equity che con Sinergia Venture Fund si allarga al Venture Capital.
Un commento sul nostro paper
In occasione del recente SIOS23 Summer a Roma, Startupitalia ha pubblicato il consueto paper sull’ecosistema in cui si raccolgono i dati aggiornati sui round degli ultimi mesi. Abbiamo chiesto a Cremonini un commento alla luce di numeri non eccezionali, ma in linea col panorama internazionale. «Dal report ho notato subito almeno due elementi significativi: in Italia non ci sono ancora exit significative. Una delle cause è il mercato del Venture Capital che deve ancora crescere, in dimensione e qualità. CDP Venture Capital finora ha contribuito molto alla nascita di nuovi fondi ed alla crescita della nostra “asset class” in generale, e come operatore del settore mi auguro che questo operatore sia presto ri-messo in grado di continuare il suo percorso».
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C’è poi l’altro elemento che emerge dal paper secondo il venture capitalist: «Le nostre startup sono ancora troppo poco interessanti per gli investitori internazionali. Un po’ è la conseguenza della dimensione e “geo-localizzazione”, un po’ dello scarso peso che tutta l’industry VC italiana ha all’estero. Sono entrambi elementi su cui dobbiamo fare di più». In un contesto così complesso per l’economia, tra licenziamenti di massa e inflazione, qual è il suggerimento da dare? «In questo momento c’è bisogno di molto sangue freddo: i prossimi 12 mesi credo saranno ancora difficili per le startup. Cash is the king, dicono gli inglesi. Ecco, oggi le startup devono essere brave a crescere cercando di ridurre il consumo di cassa. Non è banale, serve disciplina».