Dopo l’acquisizione da parte di Planet Smart City i due founder, Alessandro Nasi e Giulietta Testa, ci hanno raccontato il loro nuovo progetto che prevede la validazione di idee e l’immissione sul mercato di startup pronte a scalare
Incontriamo i founder di Djungle a poche settimane dall’acquisizione della loro startup da parte del colosso del proptech Planet Smart City, la scaleup che vuole cambiare il modello di urbanizzazione attraverso la smart social housing, cioè attraverso lo sviluppo di soluzioni abitative con i più alti standard di efficienza ma destinate alla vendita o all’affitto a canoni calmierati. Opere spesso inserite in progetti più ampi di sviluppo sostenibile e di riqualificazione. Planet Smart City è cresciuta tantissimo in questi ultimi anni con round che superano i 100 milioni (ne abbiamo parlato qui).
L’acquisto di una startup come Djungle è parte della strategia di Planet che vuole rendere sempre più digitali e accessibili i suoi progetti creando servizi che mettano al centro l’utente anche utilizzando la gamification. E Djungle in questi anni ha dimostrato di essere un ottimo player del digitale e di riuscire a mettere sul mercato applicazioni e programmi che creano valore all’interno di una community grazie al digitale. Ha sviluppato app che migliorano e stimolano l’interazione con gli utenti, prolungando l’esperienza d’acquisto anche al di fuori del negozio.
Che cosa ha fatto fino ad oggi Djungle
“Abbiamo fondato Djungle 4 anni fa – ci dice Alessandro Nasi co-founder con Giulietta Testa della startup – e abbiamo lavorato per il mondo del retail. Il nostro obiettivo era dare valore alle community creando un’esperienza utente unica attraverso anche la gamification. Gamification non vuol dire occuparsi o proporre agli utenti giochi, ma progettare esperienze ad alto potenziale di engagement, partendo dalla conoscenza di chi si ha davanti, dai bisogni sottostanti e da cicli frequenti di feedback e validation, basati su un’interazione continua di valore”. Una vera e propria strategia di marketing che ha trovato l’interesse di grandi brand come per esempio Flying Tiger, il negozio danese presente ormai anche in tutte le città italiane.
Il successo di una startup come Djungle viene dal team come ci spiega Nasi: “Fin dall’inizio abbiamo deciso di puntare su un team fatto da professionisti già formati e con esperienza alle spalle. Volevamo poter contare fin da subito su figure senior e questo credo ci distingua da altre startup dove spesso la squadra è composta da persone che imparano sul campo”. Grazie a questa strategia Alessandro e Giulietta si sono circondati di 25 persone esperte in diversi ambiti, dal marketing, allo sviluppo, dal data science, al design e sono riusciti a crescere rapidamente fino al merge con Planet. “Ora vogliamo continuare a crescere all’interno di Planet ma non solo, abbiamo infatti deciso di fondare uno startup studio che metta a frutto tutte le nostre conoscenze maturate in questi anni”. L’idea di Djungle, quindi, è un’ulteriore evoluzione del progetto iniziale: dopo essere riusciti a portare avanti con successo un progetto, ora Djungle si propone di farsi a sua volta incubatore di idee fondando startup che siano poi in grado di scalare e di mettersi sul mercato raccogliendo finanziamenti.
Che cosa farà d’ora in poi Djungle
Ci spiega Giulietta Testa (che ha un passato da violinista classica e ha cambiato strada affascianata dal digitale): “Il nostro team è estremamente creativo e riesce a coprire tutte le necessità di sviluppo e design di progetti. Per questo vogliamo dare loro la possibilità di pensare a nuove soluzioni e ragionare su possibili applicazioni utili per risolvere problemi comuni. Una volta sviluppato il progetto lo validiamo con indagini di mercato e lo testiamo. Andiamo poi a sviluppare solo quelle startup che hanno effettivamente la possibilità di scalare e di diventare interessanti per il mercato. A quel punto saranno in grado di uscire dal nostro startup studio e di crescere anche indipendentemente da noi”. Al contrario di altri incubatori di startup l’obiettivo dello studio Djungle non è quello di chiamare al suo interno startup e farle crescere attraverso un percorso fatto di mentorship e accelerazione, ma è quello di creare startup al proprio interno, farle crescere e poi portarle (perché no) verso una exit.
E’ l’execution che fa la differenza
Interessante è vedere il modello che Djungle si propone di sviluppare: “Creiamo contemporaneamente cinque o sei linee di lavoro – ci spiega Giulietta – i team lavorano e investiamo tempo e creatività su più progetti. Dopo un paio di settimane di brain storming e dopo la creazione di un modello di business, andiamo a verificare la fattibilità del progetto. Scartiamo quelli meno funzionali e sviluppiamo quelli che hanno potenzialità di diventare una startup di successo. La velocità nello scartare una linea sbagliata è fondamentale per non perdere tempo concentrandosi su quello che funziona”.
Un modello nuovo che va a superare tutti quegli ostacoli iniziali con cui si scontra la startup ossia la creazione del team, l’investimento iniziale, la tentazione di affezionarsi troppo a un’idea che non ha futuro. Tutto si basa sulla corretta execution e sulla validazione del risultato. “La nostra è una scommessa: dedichiamo il tempo del nostro team a sviluppare idee. Il nostro obiettivo è dare spazio a 50 progetti diversi ma poi svilupparne solo uno, il migliore”.