Privacy weekly | Il guest post di Guido Scorza, avvocato e componente del Collegio del Garante per la Protezione dei dati personali. Un viaggio intorno al mondo su tutela della privacy e digitale
Nei giorni scorsi mentre la Casa Bianca pubblicava il primo ordine esecutivo firmato da Joe Biden per regolare l’intelligenza artificiale negli USA, il giudice federale William H. Orrick della Corte distrettuale della California del Nord firmava una sentenza, sempre in materia di intelligenza artificiale, che conferma meglio di un fiume di parole quanto sia vero che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. All’origine della decisione californiana una causa intentata da tre artiste americane all’indirizzo di Stability AI, una delle società più avanti nella corsa all’intelligenza artificiale generativa, rea, a dire delle ricorrenti di aver fatto incetta, tra le altre, delle loro opere, per insegnare ai propri algoritmi a riprodurre, a richiesta dei propri utenti, opere dello stesso genere e stile.
“Sfrutta la nostra arte e creatività per il proprio business” era, nella sostanza, la contestazione con la quale le tre artiste hanno chiesto al Giudice di accertare che Stability AI aveva violato la disciplina sul diritto d’autore. Ma, contro il pronostico di molti, pronostico, per la verità, fatto forse, più sulla base del buon senso che sulle regole del diritto, il Giudice Orrik ha rigettato le doglianze delle ricorrenti sostenendo che le opere generate da Stability AI a richiesta degli utenti sono diverse da quelle create dalle artiste e pazienza se, per imparare a crearle, gli algoritmi della società abbiano “studiato” anche su queste ultime. La Sentenza che, per la verità, fa perno più su questioni di procedura che di merito, segna, comunque, un primo punto importante – anche se difficilmente definitivo – a favore dell’industria dell’intelligenza artificiale. Algoritmi uno, artisti zero, si potrebbe riassumere anche se sottolineando che la sintesi è sempre nemica dell’analisi e che la Sentenza merita di essere letta anche tra le righe. Per carità, magari, domani, proprio negli USA o altrove nel mondo, un Giudice dirà l’esatto contrario decidendo una delle tante cause già pendenti o un nuovo giudizio promosso da creatori umani contro “copioni” o “artisti” – difficile dire quale delle due definizioni sia la più corretta – algoritmici e artificiali. Ma, frattanto, diritto d’autore a parte, ci sono altre strade che un artista potrebbe battere per avere la meglio sugli algoritmi e per fissare il principio che nessuno dovrebbe poter dare il proprio patrimonio artistico in pasto a un algoritmo ponendolo poi nella condizione di generare – perché forse dire “creare” dell’opera figlia di una formula matematica sarebbe sbagliato – opere che appaiano uscite proprio dall’estro creativo, dalla matita, dalla penna o dal pentagramma di un autore? Nel rispondere a questa domanda o, meglio, nell’iniziare a ragionare su una possibile risposta vengono in mente le parole di Filone: “Le opere d’arte dànno immancabilmente a conoscere il loro creatore; chi infatti, guardando sculture e dipinti, non si fa subito un’idea dello scultore e del pittore?”. E, in effetti, è difficile sostenere che anche una canzone di Vasco o di Ligabue non siano riconoscibili alla prima nota, cosi come che guardando un quadro di Van Gogh e di Caravaggio non si lo si possa attribuire loro, salvo eccezioni, al primo sguardo.
Insomma non sembra complicato dire che un’opera d’arte, di qualsiasi genere, contiene l’impronta unica del suo autore. Ma se è così e se è vero che la disciplina europea – il famoso o famigerato GDPR – considera dato personale “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile” non si potrebbe sostenere che un’opera dell’ingegno è o, almeno, contiene, anche dati personali? E se fosse così, chiunque volesse dare in pasto ai propri algoritmi altrui opere d’arte per porli nella condizione di generarne altre dello stesso stile, dovrebbe, a monte, procurarsi il consenso dell’autore o, almeno, individuare e dimostrare di disporre di un’altra valida base giuridica tra quelle presenti nella disciplina europea sulla protezione dei dati personali che, quindi, forse, potrebbe scendere in campo dalla parte degli autori e dell’industria creativa.
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