Una serie di documenti depositati nei giorni scorsi dai querelanti in uno dei tanti giudizi pendenti negli Stati Uniti d’America con i quali i titolari dei diritti d’autore contestano alle fabbriche di algoritmi di aver usato illecitamente le loro opere per addestrare i propri algoritmi dimostrerebbe che la strada poi imboccata da tutte – o quasi – ovvero usare qualsivoglia genere di opera senza chiedere nessuna licenza facendosi scudo del c.d. fair use, non è sempre stata considerata così pacifica all’interno delle fabbriche medesime.
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AI training, il giudizio contro Meta
Tutt’altro. Il giudizio in questione è quello promosso da Kadrey, Sarah Silverman, Ta-Nehisi Coates e altri contro Meta e i documenti in questione sarebbero relativi a una serie di scambi di corrispondenza e messaggi tra manager e dipendenti di quest’ultima.
La sintesi di quello che emerge dai documenti versati in atti è tanto semplice quanto disarmante. Il dubbio sulla circostanza che si possano addestrare gli algoritmi utilizzando opere protette da diritto d’autore senza nessuna licenza era diffuso. E la tesi che il fair use bastasse a coprire l’utilizzazione tutt’altro che pacifica. Ma c’erano due problemi.
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I contenuti pubblicati dagli utenti all’interno delle piattaforme di casa Meta erano considerati da tutti insufficienti a addestrare algoritmi capaci di essere competitivi con quelli dei concorrenti. E soprattutto in tanti – troppi – mentre Meta si poneva il problema lo avevano già risolto decidendo di non chiedere permesso per usare i contenuti coperti da diritto d’autore.
Insomma, fare una scelta diversa avrebbe compromesso la competitività dei propri modelli. Meglio chiedere scusa dopo ai titolari dei diritti, che chiedere loro permesso prima, quindi. Questa è stata la decisione finale. Una decisione che la dice lunga su quello che è diventata la concorrenza: una gara di velocità per trionfare nella quale il rischio di tagliare diritti e libertà percepiti come zavorre sacrificabili sull’altare del profitto sembra diventare sempre più elevato.
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Ma, devo confessarlo, a leggere i documenti versati in causa e le tante preoccupazioni dei dipendenti a proposito del rischio di violare i diritti d’autore di qualcuno dando in pasto ai propri algoritmi le opere dell’altrui ingegno chi fa il mio lavoro non può non provare una punta di amarezza per il fatto che nessuno, ma proprio nessuno, abbia manifestato analoghe preoccupazioni per il trattamento, nello stesso contesto e per la medesima finalità, di una quantità industriale di dati personali contenuti esattamente negli stessi contenuti.
Eppure, quei trattamenti potrebbero essere illeciti – ovvero privi di un’idonea base giuridica – esattamente quanto potrebbe esserlo l’utilizzo di altrui diritti d’autore. Perché ci si chiede se si potrebbe violare il diritto d’autore e non anche se si potrebbe violare il diritto alla privacy? Certo siamo negli USA dove la nozione di privacy è diversa da quella di casa nostra e certo i documenti sono stati versati in atti in un giudizio in cui si contesta a Meta di aver violato gli altrui diritti d’autore.
Tuttavia è almeno lecito dubitare che i dipendenti di Meta si siano posti analoghi dubbi a proposito delle cose della privacy. Le spiegazioni, naturalmente, sono diverse. La prima è certamente di natura culturale: il diritto d’autore è molto più radicato, specie nei contesti ad alta vocazione tecnologica, del diritto alla privacy. La seconda, che è, forse, la più determinante è che, tradizionalmente, un’azione per violazione del diritto d’autore è molto più probabile che un’azione per violazione della privacy e rischia di costare molto di più della seconda.
Tutto comprensibile, per carità. Ma sarebbe ora di cominciarsi a preoccupare delle cose della privacy almeno quanto ci si preoccupa di quelle del diritto d’autore non solo perché si tratta di due diritti pari ordinati, entrambi fondamentali, ma anche perché – verosimilmente – negli anni che verranno, nell’industria dell’Intelligenza artificiale la privacy potrebbe acquisire un ruolo più centrale del diritto d’autore. E, naturalmente, in una rubrica come questa dedicata proprio alla privacy, c’è da augurarselo.
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