Il giovane si estraniava dalla difficile realtà familiare cercando rifugio nel mondo virtuale. Un caso riconducibile al fenomeno degli hikikomori in Italia sempre più numerosi: oltre 100 mila i casi stimati
Decidere di allontanare dalla propria famiglia un ragazzo 15enne affetto da una grave dipendenza dai videogiochi per affidarlo alle cure di una comunità specializzata. Quella presa dal Tribunale dei Minori di Brescia potrebbe essere una sentenza storica con conseguenze su molti casi simili. Tutto ciò solo pochi mesi dopo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha deciso di inserire il “disturbo da gaming” tra le malattie conosciute.
La vicenda
Purtroppo, il ragazzo protagonista di questa storia era noto alle autorità. Alle spalle una famiglia difficile, coi genitori separati e seguita dai servizi sociali, e quell’abitudine sempre più gravosa di scappare dalla realtà per cercare rifugio nel mondo virtuale dei videogames.
Col passare del tempo, da questa situazione di disagio, è emersa una condizione di profonda dipendenza con il quindicenne, schiavo della console, che passava buona parte della giornata davanti alla televisione o al computer. Senza che nessuno si preoccupasse degli obblighi scolastici del giovane e con i giorni di assenza che continuavano ad aumentare.
Un primo tentativo di intervento era stato compiuto già lo scorso novembre, ma, nonostante il decreto del Tribunale per i minorenni di Brescia prevedesse la collocazione del giovane in una comunità di recupero, il provvedimento non era diventato esecutivo per via della ferma opposizione della madre. La donna, infatti, si era mossa per vie legali riuscendo anche a trovare l’interesse della stampa e trasformando la vicenda in un vero caso mediatico.
Il rinvio di qualche mese, però, non ha fatto altro che aggravare la situazione. E quando gli agenti del commissariato di Crema sono intervenuti hanno trovato il 15enne nella sua camera, intento a giocare, con la console sulle ginocchia.
L’esercito italiano degli hikikomori
Un caso, dunque, che fa riflettere. Ma che sembra anche diventare ogni giorno più comune. La dipendenza da videogames, così come quella da social network, possono essere ricondotte, secondo gli esperti, al fenomeno degli hikikomori.
Il termine ci riporta con la mente al Giappone, dove è stato coniato verso la fine degli anni Ottanta iniziando però a diffondersi nel parlato comune solo nel 2000. Letteralmente significa “isolarsi” e viene utilizzato per descrivere una forma di autismo sociale che colpisce soprattutto giovani tra i 14 e i 25 anni.
Nel Paese del Sol Levante sono sempre più numerosi: secondo le stime più recenti, hanno da poco raggiunto la cifra di un milione di casi. Non hanno amici e trascorrono gran parte della giornata nella loro camera. A stento parlano con genitori e parenti. Dormono durante il giorno e si rifugiano in videogames e social network per sfuggire un confronto con la realtà esterna spesso vuota e deprimente. Considerarlo, però, come un problema solo giapponese sarebbe grandemente sbagliato.
In Italia si parla di 100 mila hikikomori. Una sindrome che non colpisce solo i maschi, ma riguarda anche un discreto numero di ragazze (il rapporto è di 7 a 3, in media). E, secondo Hikikomori Italia, la prima associazione d’informazione e supporto su questo tema, fondata da Marco Crepaldi, all’interno del contesto italiano, ci sono differenze anche regionali. Dovute, molto spesso, anche alle diverse opportunità di realizzazione lavorativa che il contesto esterno offre.