Sia Usa sia Cina cercano di accaparrarsi la tecnologia di fabbricazione e assemblaggio dei microchip made in Taiwan, leader mondiale del comparto. Biden prova a escludere Pechino dalle catene di approvvigionamento, Xi Jinping cerca l’autosufficienza. Mentre emergono altri hub, dalla Corea del Sud alla Malesia fino all’India
Pyeongtaek. È qui che Samsung ha una delle fabbriche di semiconduttori più grandi al mondo. Ed è sempre qui che Joe Biden e Yoon Suk-yeol si sono incontrati per la prima volta lo scorso maggio. Nella sua prima visita in Asia orientale, il presidente degli Stati Uniti non ha fatto in tempo a toccare terra che si è subito recato nell’impianto Samsung a incontrare l’omologo sudcoreano, eletto lo scorso marzo: una scelta altamente simbolica. Washington non sta badando a spese per rafforzare la produzione nazionale di semiconduttori e per costruire un’alleanza con le potenze asiatiche del settore. Obiettivo: catene di approvvigionamento “democratiche” che escludano almeno parzialmente la Cina. Ecco allora il cosiddetto Chip 4, che riunisce Usa, Taiwan, Giappone e Corea del Sud. Quest’ultima aspira a guadagnare sempre più spazio nel comparto di fabbricazione e assemblaggio, in cui Taiwan è leader indiscussa da lungo tempo.
Si tratta di un tema impossibile da scindere con quanto accaduto in queste settimane di tensioni sullo Stretto, avviate dalla visita di Nancy Pelosi a Taipei. Dopo il viaggio della speaker della Camera dei Rappresentanti, la Cina ha risposto con esercitazioni militari senza precedenti intorno all’isola principale di Taiwan. Un ruolo cruciale sulla questione è giocato proprio dai semiconduttori. Le aziende taiwanesi detengono oltre il 60% dello share globale di fabbricazione e assemblaggio, percentuale che sale addirittura al 92% della manifattura di chip sotto i dieci nanometri, vale a dire quelli tecnologicamente più avanzati. Insomma, non una leadership ma un dominio. La Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) da sola pesa oltre il 53% del mercato. Non è certo un caso che durante la sua visita Pelosi abbia incontrato molti manager del settore dei semiconduttori. Al pranzo al Grand Hotel di Taipei del 3 agosto scorso erano presenti sia il fondatore della Tsmc, Morris Chang, sia il suo presidente Mark Liu. Anche la delegazione successiva guidata dal senatore democratico Edward Markey ha incontrato manager della compagnia per discutere investimenti.
Con le spinte al decoupling Taiwan rischia di più
Proprio Liu, in una rara intervista alla Cnn, ha avvisato Pechino che “nessuno può controllare la Tsmc con la forza” e che “un’eventuale invasione renderebbe le nostre strutture non operative”. Secondo Liu, un conflitto non vedrebbe vincitori ma provocherebbe “una grande crisi economica” anche nella Repubblica Popolare. Per poi passare a un tentativo di dialogo: “Spero che non saremo discriminati perché siamo vicini alla Cina”.
Liu, in una rara intervista alla Cnn, ha avvisato Pechino che “nessuno può controllare la Tsmc con la forza” e che “un’eventuale invasione renderebbe le nostre strutture non operative”
Sì, perché finora la Tsmc è stato un attore fondamentale per garantire stabilità sullo Stretto mantenendo aperti i canali di comunicazione e cooperazione con Pechino, nonostante il pressing in senso opposto di Washington. Taipei e i suoi colossi dei microchip sono tra i principali destinatari delle pressioni di Washington per recidere il cordone tecnologico che la lega all’altra sponda dello Stretto. Nel 2020, sul tramonto dell’amministrazione Trump, dopo il divieto di esportazione di prodotti tech contenenti componentistica Usa a una serie di entità cinesi, alla Tsmc non è stata concessa la licenza per continuare a rifornire Huawei, che pesava circa il 15% del suo export. Alla sudcoreana Samsung invece sì. Contestualmente è stato annunciato l’avvio dei lavori di costruzione di un impianto targato Tsmc in Arizona, con il taglio del nastro previsto per il 2024. A fine agosto è arrivato a Taipei anche Doug Doucey, proprio il governatore dell’Arizona.
Una tendenza proseguita anche con l’amministrazione Biden, con Washington che cerca di portare sul proprio territorio un colosso esposto a turbolenze geopolitiche, leggasi possibile invasione di Pechino. Per questo gli Usa stanno cercando di appropriarsi delle sue expertise. Allo stesso tempo provando a replicare il sistema integrato costruito dalla Tsmc nella città nella città di Hsinchu, sulla costa occidentale dell’isola principale di Taiwan. Ma il gigante taiwanese ha sempre evitato di esportare le tecnologie e le expertise più avanzate. Oltre il 95% dei 57 miliardi di dollari di asset a lungo termine della Tsmc e circa il 90% dei suoi dipendenti risiedono a Taiwan. Così come ha sempre evitato di recidere il legame con la Cina, sul cui territorio ha peraltro attivi due stabilimenti tra Shanghai e Nanchino. Non lo ha fatto neppure dopo il ban di Trump verso Huawei e anche dopo che, nell’autunno del 2021, il ministero dell’economia taiwanese ha annunciato la revisione delle regole per la vendita di componenti o impianti e per il trasferimento di tecnologie sensibili a controparti cinesi con le aziende obbligate a richiedere un’approvazione alle autorità, mentre prima dovevano solo notificare le transazioni. Negli ultimi mesi, Tsmc ha fornito alla cinese Oppo le tecnologie per lo sviluppo di chip a 3 nanometri, più avanzati rispetto a quelli a 5 nanometri che verranno sviluppati in Arizona. Anche la SiEngine Technology, azienda di Wuhan specializzata nel design di chip dedicati all’automotive, utilizzerà prodotti targati Tsmc.
Hub alternativi: Corea del Sud, Malesia e India
Non è un caso che sia Washington (attraverso il Chips Act) sia Pechino stanno cercando disperatamente di ridurre la dipendenza dagli attori taiwanesi con finanziamenti mastodontici per i player nazionali. Quando uno o l’altro non avranno più bisogno di Taiwan, potrebbe venire meno uno dei deterrenti alla guerra. In tal senso interessante i movimenti degli Usa e degli altri paesi asiatici per individuare alternative con meno incognite geopolitiche. Se l’ambizione all’autosufficienza completa nel settore pare una chimera, o un “esercizio di futilità” come lo ha definito Morris Chang, diversi paesi della zona si muovono per ritagliarsi uno spazio nel comparto di fabbricazione e assemblaggio. La Corea del Sud, come detto, ha ottime opportunità. Yoon, annunciando l’adesione al Chip 4, ha anche anticipato che il primo incontro preliminare del nuovo formato di cooperazione potrebbe essere convocato per settembre.
“Non è un caso che sia Washington (attraverso il Chips Act) sia Pechino stanno cercando disperatamente di ridurre la dipendenza dagli attori taiwanesi con finanziamenti mastodontici per i player nazionali”
Ovviamente, si muove con forza anche la Cina. A fine 2021, gli impianti di fabbricazione di chip in territorio cinese (tra quelli già operativi e quelli in costruzione) erano 91: un anno prima erano 66. Erano già raddoppiati tra il 2017 e il 2019. Il raggiungimento di una produzione ai più elevati standard di qualità potrebbe distare 5 o 6 anni. Ma i sussidi statali sono in costante aumento e la campagna di rettificazione dei colossi digitali in corso sta riorientando big come Alibaba o Tencent sul settore. Una battuta d’arresto alla corsa verso i chip di Pechino è però rappresentata dallo scandalo che coinvolge il China Integrated Circuit Industry Investment Fund, un attore chiave nella ricerca dell’autosufficienza del paese nella produzione di chip. Dalla metà di luglio, la polizia cinese ha confermato le indagini su almeno sei dirigenti attuali e precedenti del fondo e del suo gestore unico, Sino IC Capital Co. Ltd.
Ma attenzione anche ad altri paesi asiatici. Per esempio alla Malesia: la città di Penang sta diventando sempre più un polo di attrazione per i produttori internazionali di microchip. Tra gli altri, il gigante statunitense Intel ha annunciato nel dicembre 2021 che investirà 7 miliardi di dollari nella città per costruire un nuovo impianto di fabbricazione e assemblaggio di chip, creando 9000 posti di lavoro. C’è poi l’India. Si prevede che il mercato complessivo dei semiconduttori in India crescerà a un tasso annuo del 18,8%, raggiungendo i 64 miliardi di dollari nel 2026. Un progetto sul quale spinge molto il premier Narendra Modi.