Gabriele Manasse è il co-fondatore di Bablic. Fondata nel 2013 a Tel Aviv, la startup è specializzata nel facilitare il processo di traduzione multilingue. La sua storia in una nuova puntata della rubrica “Italiani dell’altro mondo”
«Al momento sono a Roma con la mia famiglia, dove resterò fino a tempo indeterminato. Non era la prima volta che sentivamo le sirene, ma quanto successo è stato traumatico. Mi sono sentito cacciato da casa mia». Un mese fa Manasse Gabriele era ancora in Israele con moglie e figli, ma dopo l’attentato di Hamas del 7 ottobre ha deciso di tornare in Italia, dove è nato, per garantire l’incolumità dei propri cari. Non è una storia ordinaria di Italiani dell’altro mondo, la rubrica con cui raccontiamo i profili di imprenditrici e imprenditori dalla Silicon Valley all’Europa. Quello che Israele ha definito il proprio 11 settembre non è stato l’argomento principale della nostra intervista, ma i commenti di un imprenditore che abita quell’ecosistema da 20 anni sono utili per capire in che scenario sono costretti a operare oggi gli imprenditori.
Israele prima della startup nation
Nato nella Capitale in una famiglia ebraica, Gabriele Manasse ha 44 anni ed è il Cofounder di Bablic. Fondata nel 2013 a Tel Aviv, la startup si è specializzata nel facilitare il processo di traduzione multilingue dei siti e nell’estate 2023 è stata acquisita da Unbabel per una cifra che non è stata comunicata. «Bablic ha raccolto molto poco: meno di un milione di dollari. Dopo circa due anni siamo diventati subito profittevoli, con crescita organica. Questo è un elemento che mi piace sottolineare: essendo una startup SaaS (Software as a Service, ndr) credo che la nostra sia diventata una PMI digitale». Manasse ha citato questo articolo nel quale si dà una visione non è immediata per chi fa startup: tutte le aziende innovative sono compatibili con il Venture capital? «Credo sia sbagliato ostinarsi a cercare fondi come unica soluzione».
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Mettendo però da parte Bablic, torniamo a farci raccontare il percorso dell’imprenditore e il primo incontro con Israele. «Essendo nato in una famiglia ebraica la connessione con quel Paese c’è sempre stata. E poi ho sempre avuto un approccio internazionale». Decisivo nella sua carriera è stato il legame con Jonathan Pacifici, venture capitalist. «Ho studiato comunicazione e marketing a Roma, ma volevo sporcarmi le mani. Così ho ottenuto una intership nella società di consulenza di Jonathan a Tel Aviv. Era il 2002 e mi occupavo di fare ricerche di mercato». Tempo di rientrare in Italia per laurearsi, Gabriele Manasse ha deciso di ritornare in Israele, per rimanerci. Come si presentava il Paese a inizio millennio? «Era il periodo immediatamente successivo alla scoppio della bolla delle dot.com negli USA, con ripercussioni in tutto il mondo e contratture significative. Economicamente non è stata una fase facile. Poi c’è stata la seconda intifada con gli attentati. Al netto di tutto questo, essendo curioso di tutto ciò che è innovazione per me era come andare in un Paese già proiettato nel futuro».
Terreno fertile
Quando ancora non c’erano Facebook o l’iPhone, in Israele iniziava a palesarsi una sembianza di quel che sarebbe stata la rivoluzione mobile. «In Israele si vedevano però gli smartphone. La startup modu aveva realizzato un primo device (sarebbe stata acquisita da Google nel 2011, ndr). All’epoca il mercato del software in Israele assisteva alla nascita dei primi esperimenti di SaaS». Il centro di gravità dell’ecosistema è Tel Aviv, con altri poli d’eccellenza come Kiryat Gat, detta anche Intel City. «Tel Aviv è una città multiculturale, giovane e con una scena underground musica e artistica molto interessante. Tutto questo confluisce anche nel panorama tech. Il governo ha avviato politiche lungimiranti alla fine degli anni Settanta, creando terreno fertile per i fondi della Silicon Valley. A inizio millennio sono arrivati soggetti del calibro di Sequoia».
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Nel 2009 Gabriele è andato a Francia e a Singapore per fare un MBA con INSEAD, e poi qualche anno dopo ha conosciuto l’altro cofounder di Bablic, Ishai Jaffe. «Lui ha un’esperienza da sviluppatore, un founder tecnico, mentre io avevo più esperienza di business. Bablic è nata così come infrastruttura tecnologica per strutturare i siti in più lingue». La startup non si occupa di traduzioni, ma dell’infrastruttura che le facilita grazie anche a partnership con aziende che lo fanno di mestiere. L’azienda ha contato su un team di 5 persone. Abbiamo chiesto un commento finale sulla politica interna, anche alla luce delle proteste di massa contro la riforma della giustizia voluta da Netanyahu. «Io e il mio socio siamo stati molto critici nei confronti di questo governo e del primo ministro, a cui riconosco comunque infiniti meriti. Ha fatto tantissimo come ministro delle Finanze, ma è uno dei responsabili della sperequazione economica tra new economy e l’economia reale. Per quanto riguarda quanto sta accadendo credo che a Gaza sia in corso una tragedia umanitaria, di cui Hamas è interamente responsabile».