Il provvedimento approvato dalla Fcc, che ribalta le garanzie di era obamiana, in vigore dall’11 giugno. Il tentativo dei democratici è destinato al fallimento ma ci sono altre strade per proteggere la rete uguale per tutti
Lo scorso dicembre la Fcc statunitense, la Federal Communications Commission, ha posto fine alla cosiddetta net neutrality. Di cosa si tratta? Della possibilità che l’accesso e i servizi internet siano uguali per tutti gli utenti. Che, cioè, non si possa creare una rete a velocità diversificate in grado di avvantaggiare chi paga di più o penalizzare, sotto vari punti di vista, certe zone o certe fasce d’utenza svantaggiate o che non abbiano sottoscritto un certo abbonamento. L’altro giorno la potente commissione presieduta dall’ex Verizon Ajit Pai – nominato da Barack Obama ma piazzato al vertice della Fcc da Donald Trump – ha stabilito la fine della neutralità della rete: dall’11 giugno il Restoring Internet Freedom Order entrerà in vigore.
Cosa cambia
Entro un mese i colossi delle comunicazioni come Verizon, At&t e Comcast dovranno adeguarsi alle prescrizioni della normativa (che almeno sotto il profilo della trasparenza compie qualche passo in avanti) ma potranno iniziare a modulare la rete in base alle proprie esigenze commerciali. Potranno, come si spiegava, chiedere per esempio più soldi per veicolare certi tipi di contenuti, magari a certe velocità e risoluzioni o qualità. Quel provvedimento inoltre mina la questione dal punto di vista culturale, trasferendo la vigilanza sulla propria applicazione dalla Fcc alla Federal Trade Commission. Insomma, da argomento di comunicazione (e dunque di libertà) a faccenda commerciale, di mera concorrenza e lotta di prezzi, servizi e tariffe.
Fine dell’era Obama
Il voto della fine dell’anno scorso aveva di fatto spostato il tema del collegamento alla rete dal Title II del Communications Act risalente al 1934, quello battezzato “Common carrier” in cui rientrano anche servizi primari come forniture di gas, telefono ed elettricità, al Title I, dal controllo più blando e che gode di una “light-touch regulation” come disse lo stesso Pai mesi fa. Ribaltando esattamente quanto fatto con l’Open Internet Order voluto da Obama nel 2015 per garantire una rete uguale per tutti i cittadini statunitensi (ma, come noto, quel che accade negli Usa su questi argomenti ha ricadute fortissime in tutti i mercati).
Le posizioni
Con questo passaggio si sciolgono, dicono i repubblicani, i lacci al settore. Con risultato di favorire l’innovazione (leggi 5G) e anche gli investimenti per portare connettività anche nei territori meno coperti del Paese. Per gli oppositori, come molte organizzazioni che seguono il settore e i democratici, è il caso contrario: finisce internet libero e paritario e si apre una doppia (se non multipla) corsia attraverso la quale dare accesso e qualità diversa in base a quanto si paga. La diversificazione delle offerte potrebbe in effetti farsi selvaggia: dall’accesso ai contenuti basilari come email e social network al pagamento aggiuntivo per il caricamento sul cloud (quindi non solo per la memoria ma anche per il trasferimento) fino al paradiso dei contenuti in streaming, ormai modalità standard di fruizione di serie tv, show, film, sport e cartoni per le nuove generazioni.
La battaglia al Congresso Usa
Cosa sta accadendo al Congresso statunitense? Un fatto confortante che tuttavia rischia di terminare con una sconfitta complessiva. Il Senato ha votato ieri per rigettare la famigerata decisione della Commissione federale sulle comunicazioni: i democratici sono riusciti a spuntarla con margini anche superiori alle aspettative della vigilia: 52 contro 47. Con loro hanno infatti votato tre repubblicani (Susan Collins, John Kennedy e Lisa Murkowski) senza contare l’assenza di John McCain, in fase terminale per via di un tumore al cervello.
Mentre questa battaglia sembra essere stata vinta, la prova più dura è tuttavia dietro l’angolo: la Camera dei deputati. Stando alle indiscrezioni, il provvedimento dovrebbe essere sostenuto da 161 rappresentanti, soglia molto lontana dai 218 necessari per essere approvato e dunque pensionare definitivamente l’Internet Freedom Order, che la parola “freedom” la declina solo a vantaggio delle telco. Insomma, è pressoché impossibile che i democratici riescano a raggranellare la cinquantina di voti che serve per difendere la net neutrality anche nell’altro ramo del Congresso, dove la maggioranza del Gop è più corposa.
Il possibileveto di Trump (che non servirà)
Non basta: anche se ci riuscissero il presidente Trump manterrebbe comunque il veto sulla misura, cioè l’opportunità di rigettarla. Insomma, difficile pensare che se finisse sulla scrivania dello studio ovale il dispositivo incasserebbe luce verde. “Sono dispiaciuto che i democratici siano riusciti ad approvare la misura al Senato – ha commentato, non a caso, Pai – ma sono sicuro che il loro impegno per reintrodurre una regolamentazione pesante sul tema fallirà”. Dunque, se anche la vittoria al Senato ha dimostrato una rottura molto forte anche in campo repubblicano, ed è senz’altro un colpo simbolico importante per chi vuole una rete libera e uguale, ne segna di fatto la fine del percorso. L’11 giugno quel regolamento entrerà in vigore senza troppi problemi, inaugurando un’epoca diversa e in gran parte oscura.
Come difendere la net neutrality de facto
Rimangono delle strade per mantenere una sorta di net neutrality de facto. Una di queste sta nelle leggi approvate da numerosi stati (dal Montana a New York passando per New Jersey, Hawaii, Vermont e Oregon) che hanno in pratica declinato il mantenimento di accordi e contratti delle società di telecomunicazione con le agenzie governative al congelamento della situazione così com’è, senza differenziazioni, blocchi, pagamento o priorità a seconda dei clienti. Pena, la perdita delle ricche commesse. Altri stati stanno ragionando su leggi simili o diverse che tuttavia proteggano la rete in una qualche misura e altri, come Washington, le hanno già approvate. Su questi provvedimenti grava la spada di Damocle del solito regolamento della Fcc – e delle pressioni delle associazioni delle telco come la UsTelecom – in cui si stabilisce che nessuna legge di qualche Stato può contraddire quanto previsto e votato dalla commissione guidata da Ajit Pai. Altri 22 stati, e 11 enti differenti da compagnie tecnologie a ong, hanno invece citato in giudizio la Fcc per l’Internet Freedom Order. La strada è dunque ancora lunga ma la bilancia pende sempre di più dalla parte delle telco.