L’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova ha rapidamente adattato molte delle sue linee di lavoro alle complicate esigenze sanitarie del paese. A partire dall’ideazione del robot avatar per proteggere gli operatori sanitari, fino all’intelligenza artificiale per la selezione di molecole promettenti
“Ci sarà tanto lavoro, come sempre, ma sarà diverso”, con queste parole, pronunciate a settembre, Giorgio Metta subentrava a Roberto Cingolani come direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Metta però non poteva immaginare quanto sarebbe stato diverso il lavoro da fare nel suo primo anno da direttore. Nemmeno il tempo di ambientarsi nel nuovo incarico e scoppiava in Italia la pandemia di CoVid-19. Dall’intelligenza artificiale alle neuroscienze, l’IIT di Genova è una delle grandi eccellenze pubbliche della ricerca italiana e ha rapidamente adattato molte delle sue linee di lavoro alle complicate esigenze sanitarie del paese, triangolando con le aziende e con gli ospedali. A partire dalla robotica, che non solo è uno degli aspetti più visibili e noti dell’attività dell’Istituto, ma è anche il campo operativo di Metta, ingegnere e creatore del robot umanoide iCub.
Come avete interpretato l’emergenza?
Dal punto di vista pratico eravamo già attrezzati per lo smart working, anche a causa della difficoltà di muoversi a Genova dopo il crollo del ponte Morandi. Durante il lockdown abbiamo mantenuto in piedi i laboratori critici, le macchine che non si potevano fermare, le colture cellulari. E abbiamo risposto all’emergenza con spirito di servizio, come sempre. Non siamo virologi, ovviamente, quindi siamo stati lontani da quella parte lì. Ma durante la fase critica i nostri robotici hanno fatto diverse consulenze di ingegneria a ospedali e aziende
Un primo risultato è il robot avatar testato nell’Ospedale di Pisa
L’idea era creare un prodotto semplice, che costasse pochissimo e permettesse ai pazienti nei reparti CoVid di chiamare i familiari senza creare rischio per medici e infermieri. Abbiamo chiesto supporto a Roomba, che ci ha dato il codice e ci ha consentito di modificarlo. Avevamo degli algoritmi di tele-operazione per l’industria 4.0, li abbiamo riconvertiti in ottica CoVid. Il robot ha montato su un tablet, può essere gestito in remoto dal personale sanitario, che lo teleguida e lo fa arrivare al paziente che ne ha bisogno per chiamare a casa. Il punto di partenza è che si possono fare dei progetti interessanti a costi molto ridotti, e parliamo di poche centinaia di euro.
Che altre frontiere ha la robotica negli ospedali?
La robotica può aiutare a ridurre la presenza non necessaria di medici e operatori sanitari nei reparti a rischio. Ovviamente non può e non deve sostituire il contatto con i pazienti, ma può essere utile per la micro-logistica, il monitoraggio dei pazienti, il trasporto dei farmaci, quello dei pasti. Riduce l’esposizione al rischio. Poi la sua applicazione concreta è un discorso di costi e investimenti da parte delle strutture sanitarie, ma la logica è la stessa dell’industria 4.0: avere un operatore in remoto che guida il robot sulla catena di montaggio diminuisce il rischio di incidenti e di infortuni. Quando si applica la robotica alla micrologistica di un magazzino Amazon il risparmio economico è evidente, negli ospedali queste soluzioni devono essere integrate in strategie più ampie. Ma la tecnologia c’è.
Da cosa nasce invece il progetto sanitario con Ferrari?
Eravamo in contatto da prima, su altri fronti. In cinque settimane, insieme a Camozzi, che è un fornitore di componenti, abbiamo realizzato un respiratore polmonare facile da assemblare, con materiali interamente reperibili in Italia. Ora la pressione sugli ospedali per fortuna è calata, ma è un prodotto pronto da essere realizzato in tempi molto rapidi, tutto in Italia, se dovesse scoppiare un nuovo focolaio il prossimo inverno.
Com’è stato il processo di sviluppo?
La squadra corse ha un’esperienza di fluido-dinamica incredibile, ha l’abilità di eseguire progetti complessi in tempi rapidissimi, e poi sono ingegneri: anche se veniamo da settori diversi, alla fine parliamo la stessa lingua. I tempi per arrivare dall’esigenza a un prototipo sono stati rapidissimi.
In che modo l’intelligenza artificiale può aiutare la ricerca farmacologica?
È una frontiera in grado di tagliare costi e tempi. Siamo in grado di simulare a livello atomico le interazioni tra le molecole. Anche su questo fronte ci siamo attivati per rispondere alle esigenze di lotta alla pandemia. Quello che abbiamo fatto è stato prendere la struttura della proteina del virus e testare nel simulatore tutte le molecole approvate dalla FDA americana, per capire quelle che avevano più probabilità di interagire col virus. Il lavoro è stato fatto in collaborazione con l’Ospedale Spallanzani di Roma, l’obiettivo era arrivare a un ranking tra le terapie contro il virus. Il metodo computazionale non sostituisce i test veri e propri, ma accorcia i tempi. Se su 4000 molecole riesco a evidenziarne dieci promettenti, evito procedure lunghe e test costosi su migliaia farmaci che non avrebbero portato nessun risultato.
Che infrastruttura serve per un lavoro del genere?
La sezione di bio-informatica è stata inaugurata nel 2017, con un grosso investimento, parliamo di un’infrastruttura da 40 milioni di euro nel nostro Center for Human Technologies, sulla Collina degli Erzelli, a Genova. Abbiamo un programma di genomica, collaboriamo con l’Ospedale Gaslini per lo studio delle malattie del neuro-sviluppo. Serve un’enorme potenza di calcolo in questo settore, e purtroppo è un aspetto sul quale l’Italia rincorre gli altri paesi europei.
A che punto siamo?
L’Italia oggi ha l’1,2% della potenza di calcolo mondiale. Ci saranno delle novità, perché uno dei nodi dell’European High-Performance Computing Joint Undertaking, il programma europeo del super calcolo, sarà al CINECA di Bologna. Oggi solo aziende molto grandi, come ENI o Leonardo, possono investire nel calcolo ad alta prestazione. Che è inaccessibile alle piccole e medie imprese, che però ne avrebbero grande bisogno. Servirebbe un’infrastruttura italiana on demand alla quale accedere. Sarebbe un ponte cruciale per avvicinare le imprese e la ricerca, la cui distanza è uno dei grandi problemi italiani.
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