Un gruppo di persone chiacchiera davanti a delle auto elettriche. Sembra un normale video da social, uno di quelli che scorri senza pensarci. Ma… e se fosse tutto finto?
Attenzione: non parliamo di un film d’animazione o di una di quelle deepfake vistose che ormai riconosciamo a colpo d’occhio. Parliamo di persone — o meglio, attori digitali — che gesticolano, parlano, si interrompono l’un l’altro in modo perfettamente naturale e, sì, banale. Un filmato in apparenza uguale a mille altri che vediamo ogni giorno sui social, se non fosse che è stato generato completamente da un’intelligenza artificiale come Veo 3 di Google.

Il salto di qualità è proprio questo: non più la spettacolarità del falso, ma la sua normalità. Quel che era distintivo dell’umano — le piccole imperfezioni, il modo in cui la luce cade sui volti, le pause naturali nel parlato — ora può essere replicato su richiesta da una macchina. Siamo arrivati al punto in cui l’ordinario stesso è diventato replicabile.
Quindi, la domanda non è più se un video sia vero o falso. È se abbia ancora senso chiederselo. E stavolta a essere in gioco non è solo una questione tecnologica: è la fiducia nelle immagini che vediamo tutti i giorni, il fondamento stesso di come interpretiamo la realtà.
Quando il quotidiano diventa sospetto
Fino a ieri, il confine tra vero e falso nei contenuti video era una linea relativamente netta. Certo, esistevano le manipolazioni, ma richiedevano competenze, tempo e spesso si vedevano. Ora quel confine si sta dissolvendo, silenziosamente ma inesorabilmente.
Questa evoluzione non nasce dal nulla. Cresce su due pilastri: la potenza crescente degli algoritmi generativi e una crisi di fiducia già in corso da anni. La pandemia ha accelerato la diffidenza verso le informazioni ufficiali, la polarizzazione politica ha reso normale mettere in dubbio qualunque fonte, e i social media hanno moltiplicato falsi e manipolazioni in tempo reale. Se una volta i video erano considerati una prova quasi incontrovertibile, oggi tutti sappiamo che “vedere” non basta più.
Ma il vero salto qualitativo di tecnologie come Veo 3 non sta nella spettacolarità delle creazioni, bensì nella loro banalità. Non servono più Presidenti generati al computer o scene fantascientifiche per farci dubitare. Bastano gli sconosciuti nelle vie delle nostre città, le “testimonianze” ordinarie di clienti soddisfatti, le scene di vita quotidiana che potrebbero essere il tuo vicino o il commesso del supermercato.
L’intelligenza artificiale non si limita a fabbricare realtà alternative spettacolari: sta minando il terreno comune su cui basiamo le nostre scelte quotidiane. Quando qualunque video può essere falso, e quello falso è indistinguibile dal vero, cosa succede alla nostra capacità di orientarci nel mondo?
Il crollo dell’evidenza visiva
L’arrivo di video completamente artificiali ma perfettamente credibili cambia per sempre il modo in cui leggiamo e interpretiamo la realtà. Se pubblicare una falsa testimonianza diventa semplice come scrivere un post di testo, cosa accadrà nei prossimi mesi alle dinamiche della comunicazione, del marketing, del giornalismo?
Probabilmente assisteremo a un crollo drastico della fiducia in qualunque contenuto video non verificato. La frase “l’ho visto con i miei occhi” perderà completamente di senso, non solo nelle conversazioni quotidiane, ma anche nei tribunali, nei media e nelle aziende. La verifica dei contenuti diventerà una battaglia continua tra chi prova a smascherare i falsi — usando tecnologie come i watermark SynthID di Google o sistemi di tracciamento blockchain — e chi trova sempre nuovi modi per aggirare questi controlli.
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Questa guerra permanente per l’autenticità si riverserà inevitabilmente su piattaforme, brand e istituzioni, forzandole a prendere posizione tra trasparenza radicale e rischio costante di manipolazione. I marketer scopriranno quanto sottile e scivolosa sia la linea tra “storytelling efficace” e “falsificazione bella e buona”, mentre i cittadini comuni si troveranno a dover navigare quotidianamente un flusso di informazioni permanentemente sospetto.
La realtà stessa, insomma, sta diventando un campo di battaglia dove vince chi riesce a costruire e mantenere meglio la fiducia. E questa non è più una questione solo per esperti di comunicazione o tecnologi: riguarda chiunque debba prendere decisioni basandosi su informazioni che arrivano attraverso uno schermo.
Vivere nell’era del sospetto permanente
Chi lavora con i media, la comunicazione o semplicemente vive di informazione per il proprio business, non può più permettersi il lusso della leggerezza o della buona fede. La prima regola è sviluppare quello che potremmo chiamare “sospetto operativo”: ogni video, anche quello più normale e innocuo, va preso con le pinze e contestualizzato. Non è paranoia, è adattamento alla nuova realtà.
Le aziende dovranno investire massicciamente in strumenti di verifica e autenticazione — dai watermark ai sistemi di tracciabilità della provenienza — e, soprattutto, formare dipendenti e collaboratori su come leggere criticamente i contenuti digitali. Non basta più affidarsi alla buona fede o al “buon senso”: servono competenze specifiche e processi strutturati.
Per professionisti e imprenditori, la strategia vincente è costruire ecosistemi di trasparenza e autenticità. L’unico valore davvero difendibile in questo scenario è la chiarezza assoluta sui processi e sulle fonti. Racconta nel dettaglio come produci i tuoi contenuti, documenta pubblicamente le tue fonti, sii esplicito quando usi l’AI per creare materiali — questo diventa il modo principale per distinguersi in un mare di incertezza.
E per chiunque, la parola d’ordine è consapevolezza: la realtà è cambiata di nuovo, profondamente, e dobbiamo imparare a vivere in un mondo dove “vedevo, dunque credevo” non è più un principio affidabile. La fiducia, oggi più che mai, non si può dare per scontata: si conquista ogni giorno, con trasparenza, coerenza e verificabilità. Perché se tutto può essere falso, l’unico valore che resta è essere autenticamente, dimostrabilmente veri.