Non sopporta le disuguaglianze e dal 2019 studia come le tecnologie e l’Intelligenza artificiale impattano sulla società. Diletta Huyskes, ricercatrice, attivista e consulente, si occupa di etica, cultura, design e impatto sociale dell’AI e studia gli effetti dei sistemi algoritmici sulla società. Non si occupa di piattaforme e social media, ma studia i sistemi usati per automatizzare l’erogazione dei servizi pubblici come il welfare, la giustizia, la sanità e il fisco e le loro implicazioni. Quando ha cominciato a trattare questo tema era davvero giovane, poco più che vent’enne, e online non ha trovato quel supporto che si sarebbe aspettata. «Sono stata attaccata anche da personaggi conosciuti e influenti nel mondo dati e dell’AI solo perché ero una donna molto giovane e in tanti non riconoscevano in me un’autorevolezza. Ne ho sofferto tanto e credo che se fossi stata un uomo non avrei ricevuto lo stesso trattamento», racconta Diletta, che sarà una delle delle protagoniste del nostro prossimo appuntamento con SIOS25 Sardinia: Next Edge.

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Diletta, quando hai iniziato ad accusare il gender gap?
Parlerei più di gender bias anzichè gap. Ho iniziato la mia carriera nella Fondazione Bruno Kessler di Trento come ricercatrice, mi sono occupata di etica dei dati e dei processi, dopo una laurea all’Università di Utrecht e un dottorato in Sociologia. Muovendomi nel campo delle scienze umane e sociali, non ho subito discriminazioni sul posto. A fare la differenza in questa fase è stata più la mia competenza oltre al genere. Quando ho iniziato a raccontare quello che facevo online, ho avuto trattamenti non piacevoli e sono stata anche attaccata anche da personaggi conosciuti e influenti nel mondo dei dati e dell’AI. Ne sono rimasta molto delusa perché non capivo la ragione per cui dovessi giustificarmi di essere una giovane studiosa. Poi ho capito che alcuni esperti di questa materia non accettavano che a poco più di 20 anni mi esponessi su questi temi, mi sembrava di non venire mai presa sul serio. Sono convinta che se fossi stata un uomo non avrei, comunque, ricevuto questo trattamento, anche indipendentemente dalla mia età.
Oggi di che cosa ti occupi precisamente?
Attualmente sono ricercatrice Postdoc in Filosofia e Tecnologia all’Università degli Studi di Milano e faccio ricerca sull’utilizzo dei processi automatizzati in contesti ad alta responsabilità decisionale, i valori socio-culturali coinvolti nella loro progettazione e sulle conseguenze che hanno sulla società. Tratto, quindi, l’AI da un punto di vista sociologico e come costrutto sociale. E anche su questo fronte è una battaglia ancora aperta perché ci sono altri studiosi che non accettano che la tecnologia non venga trattata da un punto di vista numerico o come modello matematico. Io credo, invece, che la dimensione sociale sia essenziale e che vada studiata anche isolandola dalla sua componente umana. Dal 2019 sono anche responsabile Advocacy & Policy di Privacy Network, associazione no-profit italiana che opera nel campo dei diritti digitali, dove ho lanciato e coordinato il primo osservatorio nazionale degli algoritmi usati dalla pubblica amministrazione nei servizi ai cittadini.
In questo studio molto specifico, che ruolo gioca la tua preparazione filosofica?
Ho iniziato a studiare l’AI da un punto di vista sociologico 4 anni fa, ma prima mi sono laureata in Filosofia e proprio grazie a questi studi ho assimilato un’impostazione mentale che mi consente di approcciare l’Intelligenza artificiale da un altra prospettiva che non sia, appunto, solo legata a numeri e algoritmi. Grazie alla filosofia e a uno sguardo critico applicato alla sociologia ho condotto ricerche empiriche sul campo e ho cofondato con la collega, Luna Bianchi, Immanence, una società che valuta impatti e rischi delle tecnologie digitali e offre soluzioni per assicurare etica, non discriminazione.

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In che modo oggi fai conoscere agli altri il tuo lavoro?
Ho avuto modo di confrontarmi anche con le istituzioni pubblichi italiane e olandesi sulle mie ricerche, sia nelle sedi politiche che in enti e aziende che lavorano col pubblico per cercare di capire come mai succedono certe cose. Oltre agli algoritmi dietro l’AI c’è molto di più e questo “molto di più” può aiutare aziende e organizzazioni pubbliche e private. Con la collega Luna ci siamo rese conto che, a un certo punto, era necessario adottare un approccio diverso tra chi crea questi sistemi e chi li deve adattare alla società, al fine di limitare i rischi a la mancanza di governance e bias, in favore della trasparenza. Allora è nato il nostro motto: “Possiamo creare AI e tecnologie utili e importanti per la società ma anche che rispettino i valori in cui crediamo”. Grazie a questa idea oggi riusciamo a capire come poter migliorare certi contesti lavorativi, coscienti del fatto che, spesso il problema sta nel processo umano.
Immanence di che cosa si occupa?
La società è nata 4 anni fa appunto per valutare gli impatti e i rischi delle tecnologie digitali e dell’AI e offrire soluzioni che assicurino l’etica, non la discriminazione. Abbiamo faticato molto per farci sostenere, perché era un argomento che si tendeva a mettere da una parte e sia io che Luna come gli altri componenti del nostro team sapevamo di andare incontro a un grande rischio. Oggi siamo molto sorpresi da quanto, invece, stia andando bene.

Hai scritto anche un libro “Tecnologia della rivoluzione” (Il Saggiatore, 2024), quali temi porti al centro dell’attenzione?
Oltre a vari temi, il libro parla anche di gender gap negli anni ’80. C’è una frase emblematica che risale al 1991, della docente Judy Wajcman, che si chiede come mai, allora, le donne non venissero considerate nel modello economico. Vorrei citarla: “Piuttosto che mettere in discussione la scienza in sé, partono dal presupposto che la scienza è una professione nobile e un’attività degna di nota e che, se le ragazze ricevessero le giuste opportunità e incoraggiamenti, diventerebbero volentieri scienziate in proporzione al loro numero nella popolazione. Ne consegue che il rimedio all’attuale mancanza è visto come un problema che una combinazione di diversi processi di socializzazione e di politiche di pari opportunità consentirebbe di superare”.
E oggi che cosa è cambiato rispetto a queste considerazioni?
Oggi ritengo che si, forse l’incoraggiamento allo studio delle STEM non basta e che sia l’ambiente tecnologico che quello scientifico non invoglino le donne a prenderne parte, ma non è solo un tema di rappresentazione. Non basta mettere una donna tra 10 uomini per dire che le donne sono rappresentate, vuol dire che c’è qualcosa di più radicato. La chiamano “cultura maschile della tecnologia” perchè i modelli attualmente in uso sono nati su queste basi.
Oggi che cosa fai per batterti contro questi stereotipi?
Anzitutto, divulgazione. Spesso sono ospite di eventi, come SIOS25 Sardinia, e mi piace l’idea di trasferire questi messaggi a più persone possibili. Dovrebbero tranquillizzarci sull’AI e si dovrebbe restituire un po’ di linearità, soprattutto in questo quadro geopolitico che sicuramente non va a nostro favore. Ora voglio provare a integrare questo approccio esclusivo alla tecnologia come parte di processi sempre più ampi da proporre in più contesti e con cui si possono costruire alleanze. Da un altro lato, sono convinta che servano proposte sui diritti, sull’etica, per non essere risucchiati dal vortice dei luoghi comuni.