Guida Sistech, organizzazione non-profit attiva in Francia, Italia e Grecia. Dal 2017 ne ha sostenute oltre 350. Il suo posto nel mondo accanto agli ultimi per mettere a frutto le loro competenze
Negli anni in cui l’Europa faceva i conti con la crisi dei migranti, Joséphine Goube è stata inserita da Forbes nella lista degli under 30 che si sono distinti per l’impatto sociale della propria impresa. Nel 2015, quando l’immagine del piccolo Alan Kurdi trovato morto su una spiaggia in Turchia ha sconvolto politica e opinione pubblica, qualcosa è successo nella vita di questa giovane donna. «Non credo di aver scelto di essere un’imprenditrice. Mi è capitato. Come tanti altri ho visto un bisogno e volevo risolverlo. O almeno provarci». Prima con Migreat, poi con Techfugees e infine grazie a Sistech, Joséphine Goube, 34 anni, ha scelto il proprio posto nel mondo. Accanto agli ultimi, quei rifugiati che arrivano in Europa con sogni e speranze, spesso in fuga da guerre, persecuzioni, povertà. Ultimi che qui non hanno risorse, riferimenti, rete a cui affidarsi. Ma che dalla loro hanno competenze acquisite nei paesi d’origine e che, a conti fatti, suonerebbe come l’ennesima ingiustizia non mettere a frutto per le comunità in cui vivono. E, ci mancherebbe, per loro stessi.
Come aiutare i migranti
In questa intervista a StartupItalia, abbiamo conosciuto l’approccio al tema dell’immigrazione di Joséphine Goube. Pragmatico, come vorrebbe l’ottica di un’imprenditrice che guarda ai problemi, non alle divisioni che questi generano. Così, prima di Sistech, è nata l’esperienza di Migreat, un sito sul quale i migranti potevano trovare tutte le informazioni per ottenere i documenti e spostarsi in Europa una volta arrivati. «Ho collaborato con l’imprenditore Marco Muccini, che l’ha fondata a Londra, dove ho vissuto». Dieci anni fa i siti governativi non erano adeguati a rispondere a domande e dubbi di uomini e donne che neppure conoscevano la lingua del posto. «Non erano nemmeno user friendly».
Migreat e Techfugees
Così Migreat ha cercato di mettere a loro disposizione quello che Joséphine Goube ha definito una sorta di «Skyscanner per i documenti». Come tanti progetti dal basso, però, anche lei ha dovuto fare i conti con chi non aveva la sua stessa visione. «L’azienda è fallita nel 2015. Gli investitori volevano fare soldi rapidamente, mentre io ero più orientata alla tecnologia». L’anno, lo ripetiamo, è stato uno dei più drammatici per il vecchio continente. L’imprenditrice all’epoca si trovava a Londra, dove nel frattempo aveva frequentato la London School of Economics e poi preso parte al lancio di Techstars, uno dei più importanti soggetti che investono in startup early stage al mondo.
Non ha una particolare storia famigliare alle spalle che l’ha convinta a occuparsi della questione migratoria. Ma Joséphine Goube ha vissuto da vicino uno dei luoghi in Europa più noti e associati all’emergenza e all’incapacità delle politiche nazionali e continentali di trovare soluzioni e alternative all’illegalità. «Stavo vicino a Calais. La copertura della stampa mi ha sempre indignato. Tutto quello scalpore, quando quel posto è sempre stato così, la Giungla. Quando ero piccola, negli anni Novanta, là c’erano persone provenienti dal Kosovo; nel 2000 tanti dal Darfur e dall’Afghanistan». Problemi che la politica europea non è stata in grado di risolvere e che l’hanno condotta a prendere parte alla seconda avventura imprenditoriale.
Nel 2015 Joséphine Goube ha accettato l’invito di Mike Butcher, editor della magazine TechCrunch. Le Big Tech stavano già allora cambiando la vita delle persone, e in meglio sotto tanti punti di vista. Che ragione c’era dunque nell’escludere da questo processo positivo i tantissimi fra uomini e donne, ragazzi e ragazze che stavano fuggendo dal proprio paese in cerca di un futuro migliore? Così è nata Techfugees, che ancora oggi organizza hackathon, workshop ed eventi per favorire lo scambio tra le imprese del settore, ONG e migranti. Joséphine Goube ci ha lavorato per molti anni, in buona parte in qualità di Ceo. Il passo successivo, che avrebbe poi preso forma in Sistech, doveva però risolvere un problema nel problema. Tutto è partito da una domanda: perché erano così poche le donne a partecipare?
Sistech
«Ho fatto ricerche ed è emerso che la disoccupazione colpisce le donne il doppio rispetto agli uomini quando si parla di rifugiati». Cinque anni dopo aver ottenuto i documenti, l’81% delle rifugiate non ha infatti ancora un lavoro in Francia. La non-profit Sistech è attiva per questo Oltralpe, così come in Italia e in Grecia, paesi che in Europa sono quelli di primo approdo per i rifugiati. L’obiettivo è accompagnare queste persone a trovare nel lavoro la dignità per ripartire, ma non da zero. Tra le donne che ha aiutato a inserire in aziende tecnologiche ci sono laureate in ingegneria, così come esperte di cybersecurity.
«Non stiamo parlando di numeri enormi», sottolinea Joséphine Goube. Dal 2017 Sistech ha sostenuto oltre 350 donne. Cifra che senz’altro non è da startup che scala il proprio business. Ma qui non si parla di download, bensì di vite che ritrovano un senso in un luogo lontano da casa. In un panorama delle Big Tech dove ancora molto deve essere fatto su parità di genere, inclusione e diversity a tutti i livelli, gli sforzi di Sistech sono una goccia in un mare che tutti noi vorremmo più simile alla società in cui viviamo. «Essere di colore, essere donna, essere parte di una minoranza non rende migliore una persona». Ma restano le categorie di cui meno ci si occupa ed è per loro che esiste Sistech. Il 71% delle donne che vi ha partecipato ha trovato un’opportunità. E, ancora una volta, questi non sono soltanto numeri.