Fu la prima donna al mondo a praticare il giornalismo investigativo ma, soprattutto, inaugurò il filone del giornalismo sotto copertura. New York, 1887: Nellie Bly, che ha 23 anni e sogna di raccontare da dentro le verità scomode che l’America non vuole ascoltare, prenota una stanza d’albergo a New York e lì inscena una drammatica crisi di nervi. L’arrivo dei poliziotti, chiamati dal gestore dell’hotel, è immediato, così l’arresto, e pure l’ordinanza del giudice che, senza indagare troppo, destina quella giovane donna sovraeccitata e che parla e si muove in modo oscuro alla sezione psichiatrica dell’ospedale di Bellevue e, immediatamente dopo, al manicomio femminile di Blackwell’s Island.
Nellie Bly: reporter, infiltrata e impeccabilmente pazza
La Bly, che si è infiltrata con il nome di Nellie Brown, continua a fingersi impeccabilmente pazza davanti ai medici dell’istituto che, per la verità, sono poco interessati ad approfondire una malattia data per certa a priori, e davanti alle pazienti stesse: per dieci giorni è testimone oculare delle violenze e dei trattamenti disumani subìti dalle pazienti che, a quel punto, non risparmiano neanche lei. “Battevo i denti e tremavo, il corpo livido per il freddo che attanagliava le mie membra”, scriverà una volta uscita da lì in un reportage diventato epico. “All’improvviso, tre secchi di acqua gelida mi furono versati sulla testa, tanto che ne ebbi gli occhi, la bocca e le narici invase. Quando, scossa da tremiti incontrollabili, pensavo che sarei affogata, mi trascinarono fuori dalla vasca. Fu in quel momento che mi sentii realmente prossima alla follia”.
La sua inchiesta scoperchiò abusi e corruzione
Nellie Bly trascrisse parola per parola i racconti delle compagne raccolti non appena la sorveglianza le lasciava sole, mettendo a fuoco un’altra verità scandalosa: gran parte delle pazienti non soffriva di alcun disturbo mentale; si dimostrava, anzi, razionale e lucida. Al Blackwell’s Island Asylum – scoprì Bly -, venivano condotte anche donne che erano state ripudiate dai famigliari, oppure immigrate poverissime e senza un posto dove dormire e lì finivano praticamente dimenticate. Cosa che non successe a lei: dieci giorni dopo il suo ingresso, l’avvocato del giornale per cui scriveva piombò dentro l’istituto, rivelò la messinscena alla dirigenza e se la portò via.
L’inchiesta uscì a puntate, subito dopo, sul New York World – il giornale che l’aveva ingaggiata – con il titolo Ten days in a Madhouse (e persino Hollywood, nel 2016, fece un film sulla sua vicenda): il racconto indignò l’opinione pubblica procurando le immediate scuse della struttura e spinse lo Stato di New York a riformare la cura delle malattie psichiatriche stanziando anche un importante finanziamento pubblico. Nell’esporre il suo lavoro investigativo, la Bly puntò l’attenzione sulla femminilizzazione della follia, sui pregiudizi dei medici verso l’equilibrio mentale delle donne e su come le strutture sociali pervase da stereotipi di genere inducessero le donne a patire mentalmente.
Tutto cominciò da qui: a cosa servono le ragazze?
Nellie Bly divenne una stella del giornalismo sensazionalista e di denuncia e spinse una generazione di colleghi e colleghe a emularne lo spirito, sebbene i primi sarebbero stati applauditi e venerati come giornalisti investigativi a tutti gli effetti; le seconde, al contrario, minimizzate come leggere e un po’ sguaiate e definite stunt girl reporter.
La passione per l’investigazione giornalistica era sbocciata in Nellie un po’ per caso: figlia di una famiglia instabile e complicata della Pennsylvania, studiava per diventare maestra – uno dei pochi mestieri concessi a una donna nell’Ottocento – e aveva un giorno risposto a un articolo apparso sul Pittsburgh Dispatch intitolato What girls are good for in cui si diceva che le donne appartengono per natura alla casa, che il loro dovere è cucire, cucinare, crescere i figli e che quelle che lavorano rappresentano senza mezzi termini una mostruosità. La giovane Ellie Bly, che per la verità si chiamava Elizabeth Cochran Seaman, scrisse una lettera indignata e piena di intelligenza al direttore, che la convocò e la assunse. Non si sa se fu lui ad affibbiarle lo pseudonimo Nellie Bly, che era il titolo di una canzone – “Nellie Bly, Nellie Bly! Porta con te la scopa, spazzeremo la cucina, mia cara. E canta una canzoncina” -, ma di sicuro fu Nellie a indirizzare da subito il suo lavoro verso l’indagine sulle discriminazioni e le ingiustizie subite dalle donne. Indagò sulle pessime condizioni di lavoro delle operaie e dei bambini, denunciò i loro compensi da fame, sempre nettamente più bassi di quelli degli uomini, si oppose allo Stato della Pennsylvania che puntava a limitare il diritto al divorzio, ma si mostrò a tal punto appassionata alle cause in cui si immergeva giornalisticamente da impensierire la proprietà e i finanziatori del giornale, cosicché venne spostata a occuparsi di costume, casa, giardinaggio. E quando ottenne di essere mandata in Messico come corrispondente finì, anche lì, per farsi buttare fuori dal Paese a causa delle sue inchieste sociali e sulla corruzione poco tollerate dal sistema politico ed economico.
“L’autonomia e la dignità hanno un costo che vale la pena pagare”
Al ritorno, lasciò la Pennsylvania, andò a cercare fortuna a New York e riuscì a farsi assumere al New York World dal direttore Joseph Pulitzer. Il resto, a partire da quei dieci giorni d’inferno al manicomio femminile, divenne storia. Scrisse altri reportage dalla metropoli, come quello intitolato Nellie Bly ci racconta cosa significa essere una schiava bianca, nel quale svelò le impossibili condizioni di lavoro in una fabbrica di scatole nel Lower East Side, dove si era infiltrata facendosi assumere come operaia. Nel 1913 raccontò le marce delle suffragette per la conquista del diritto di voto e diventò inviata di guerra durante la prima guerra mondiale finendo in prigione perché presa per una spia. Soprattutto, scrisse il reportage del suo giro del mondo compiuto in solitaria in 72 giorni, otto in meno di quelli immaginati da Jules Verne, e culminato nel suo celeberrimo Around the World in Seventy-two Days che la rese tra le donne più famose del globo. Morì il 27 gennaio 1922. A lei si attribuisce una frase che raccoglie l’intera sua eredità umana e professionale: “L’autonomia e la dignità hanno un costo che vale la pena pagare”.