Stamattina dalle 10.30 il premio L’Oréal-Unesco For Women in Science. Intervista alla prima donna a dirigere il Laboratorio nazionale del Gran Sasso e a capo della giuria. «L’AI ha potenzialità infinite: bene il controllo, purché non fermi lo sviluppo»
Riflettendo sulla diaspora di laureati e ricercatori dal Belpaese, nel suo ultimo libro Lucia Votano individua quello che definisce un vizio del governo italiano: l’assenza di pianificazione nello stanziamento dei fondi per la formazione e la ricerca. «A volte, la somma del finanziamento viene comunicata ad anno fiscale già iniziato», spiega la scienziata. «Regna l’incertezza, l’assenza di una programmazione a lungo termine impedisce alle università e agli enti di ricerca di sapere quanti bandi aprire per le nuove assunzioni».
Votano, nata nel 1947 a Villa San Giovanni, vicino Reggio Calabria, dopo la laurea in fisica generale alla Sapienza, nel 1976 è entrata nell’organico dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, da cui è uscita nel 2012, pur rimanendo dirigente di ricerca associata. Nel corso della sua carriera ha lavorato al Laboratorio nazionale di Frascati, al Cern di Ginevra e al laboratorio Desy di Amburgo, per arrivare alla direzione, dal 2009 al 2012, del Laboratorio nazionale del Gran Sasso. Prima donna a ricoprire l’incarico, nel centro abruzzese si è occupata dell’esperimento Opera, incentrato sulla metamorfosi dei neutrini, particella elementare enigmatica a cui la fisica ha dedicato una larga parte dei suoi studi.
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La scienziata calabrese, oggi impegnata nel team dell’esperimento nel laboratorio cinese Juno, che inizierà le misurazioni nel 2024 e si occuperà anch’esso di neutrini, presiede la giuria del premio For women in science, promosso da L’Oréal e Unesco Italia. L’edizione italiana 2023 dell’iniziativa, in programma per lunedì 12 giugno, si terrà all’auditorium del Museo nazionale della Scienza e della tecnologia di Milano (qui tutti i dettagli per partecipare e l’agenda della giornata). «Da anni», sottolinea Votano, «la giuria e gli organizzatori promuovono la partecipazione all’evento per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza della presenza femminile nello studio delle materie Stem».
Che risultati avete ottenuto?
La novità di quest’anno è una maggiore varietà di competenze delle sei vincitrici. La maggior parte delle ragazze che scelgono l’ambito scientifico si specializzano nelle scienze della vita. È un fatto positivo, ma è altrettanto importante che aumenti la percentuale femminile, ancora troppo bassa, in corsi inerenti ad altri campi, come la matematica, la fisica, l’informatica e l’ingegneria. C’è poi un divario Nord-Sud da colmare, tanto nelle partecipazioni a For women in science, quanto nel panorama nazionale.
Alla migrazione interna dei giovani da Sud a Nord, così come alla fuga all’estero, fa riferimento nel suo ultimo libro, “Una storia di successo”. Quale situazione vede oggi?
Di recente sembra scorgersi una minima inversione di tendenza, dovuta anche alle maggiori risorse entrate grazie al Pnrr e a un aumento dei bandi universitari per la ricerca dei giovani. Ma non siamo neanche all’inizio del percorso per invertire la rotta: c’è ancora tanto da fare e comunque i soldi del Pnrr non dureranno per sempre.
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Nel 2020 è stata tra gli scienziati firmatari della proposta Amaldi-Maiani, indirizzata all’allora premier Conte, di investire 15 miliardi di euro in ricerca entro il 2026.
C’è un disperato bisogno di maggiori investimenti strutturali, eppure negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una decrescita continua di questo tipo di investimenti in ricerca e formazione. L’iniziativa di Ugo Amaldi sottolineava, statistiche alla mano, proprio come l’effetto positivo del Piano nazionale di ripresa e resilienza sarà effimero se non verrà coadiuvato da un sostegno economico programmato, costante e a lungo termine.
Con quali ripercussioni?
La percentuale italiana rispetto al Pil degli investimenti in ricerca e sviluppo è tra le più basse d’Europa e diminuirà di nuovo. La mancanza di piani pluriennali genererà conseguenze disastrose, non consentendo alle università e agli enti di ricerca di programmare nel medio-lungo periodo l’attività di ricerca e l’emissione di bandi per nuove posizioni stabili. C’è poca consapevolezza di quanto il supporto alla ricerca e alla formazione porti benessere economico e sociale al Paese. Viviamo nell’era della conoscenza, quindi per progredire abbiamo bisogno di produrre nuova conoscenza, che significa anche innovare.
Il rapporto tra ricerca di base e innovazione è un tema da lei più volte ribadito.
In Italia si fa poca ricerca in generale, sia nel settore pubblico, sia nel privato. A questo contesto si aggiunge la tendenza a puntare prevalentemente sulla ricerca applicata. Non intendo dire che questa non sia importante, ma non si deve penalizzare la ricerca di base, il cui ruolo è fondamentale per produrre effetti di lungo termine. Senza di essa non può esistere vera innovazione.
“Il Next Generation Eu è stata un’occasione persa per imporre agli Stati membri meno virtuosi una soglia minima del Pil da dedicare alla ricerca”
Anche se questa innovazione dovesse arrivare al grande pubblico decine di anni dopo.
I padri della fisica quantistica hanno messo a punto la teoria della meccanica quantistica circa cento anni fa. Ora parliamo di seconda rivoluzione quantistica per indicare l’utilizzo di computer e tecnologie con straordinarie capacità di calcolo, che applicano teorie definite da un secolo. Lo stesso web è nato nel 1989 all’interno del Cern con lo scopo di scambiare dati tra gli scienziati in modo più veloce, prima che l’istituto lo rendesse disponibile a tutti.
Cosa si dovrebbe fare per migliorare la situazione?
Il mancato sostegno alla ricerca di base non è una questione soltanto italiana, ma riguarda anche i programmi di finanziamento europei. È un problema che si è accentuato di recente nell’Unione, come ho fatto presente in una riunione organizzata a Bruxelles dalla parlamentare europea Beatrice Covassi lo scorso 8 marzo.
Nel libro annovera i fondatori del Cern tra i padri fondatori dell’Europa unita: Bohr e Amaldi accanto a De Gasperi e Spinelli.
La scienza, e più in generale la cultura, di cui è parte integrante, sono state il collante storico della creazione dell’identità europea, a partire dall’inizio del secondo millennio. Considero il Cern una delle istituzioni europee di maggior successo, ma oggi non è più abbastanza. Nel nostro continente, la ricerca va affrontata in modo unitario in molti più settori, prendendo ad esempio la fisica delle particelle e dell’universo. L’Europa ha perso quel rapporto privilegiato con il sapere che le aveva permesso di imporsi nel mondo. Da questo punto di vista, con il fondo Next Generation Eu si è persa l’occasione di realizzare un piano di finanziamenti comune e imporre agli Stati membri meno virtuosi una percentuale minima del proprio prodotto interno lordo da dedicare alla ricerca.
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Ue che, dopo la decisione del Garante della privacy di sospendere i servizi di Chatgpt, ha deciso di creare una task force per definire regole comuni sull’intelligenza artificiale. Cosa ne pensa?
Le potenzialità di innovazione dell’intelligenza artificiale sono infinite. Lo abbiamo già sperimentato in anni di applicazione in ambito scientifico, ancora una volta a testimonianza dell’importanza della ricerca di base, e ora i suoi benefici per la società possono essere altrettanto grandi. Non bisogna in nessun modo frenare lo sviluppo di questa tecnologia, che va invece accompagnata, nella sua applicazione, a una regolamentazione da parte delle istituzioni, per minimizzarne i possibili rischi sui diritti dei cittadini. Non è casuale che l’Ue sia stata tra le prime istituzioni a essersi mossa su questo fronte: rispecchia una cultura, quella europea, che viene da lontano e ha fatto la storia dei diritti umani e civili.
Per rendere i cittadini più consapevoli, un grande aiuto potrebbe venire dall’informazione. Sotto quali aspetti dovrebbe migliorare la divulgazione scientifica?
Non parlerei di divulgazione, ma di comunicazione della scienza, che è essa stessa una scienza e ha fatto progressi negli ultimi anni. L’atteggiamento paternalistico di trasferimento di nozioni dall’esperto verso i cosiddetti laici, o non esperti, ha lasciato spazio a un rapporto paritario tra comunicatori e pubblico, fatto di interazione con i lettori e gli ascoltatori e di ascolto dei loro dubbi e richieste. È la strada giusta e va seguita.