Oggi essere genitori significa camminare su un filo sottile: tra aspettative sociali altissime, un carico mentale invisibile e la costante pressione a “fare sempre meglio”.
Una condizione condivisa da moltissime madri e padri che si ritrovano a crescere figli in un contesto iperconnesso, ma emotivamente sempre più povero.
E se da un lato si sta finalmente sdoganando la possibilità di chiedere aiuto, dall’altro rimane aperta una domanda fondamentale: chi si prende cura di chi si prende cura?

In Italia, secondo i dati ISTAT, le famiglie con figli piccoli sono sempre più isolate rispetto al passato. Le reti di supporto, un tempo affidate ai legami parentali e al “villaggio” sociale, oggi si sono assottigliate.
A questo si aggiungono nuove fragilità, spesso invisibili: la fatica mentale, la solitudine emotiva, il senso di inadeguatezza che si insinua tra un pannolino e una call di lavoro.

Eppure qualcosa sta cambiando. Sempre più genitori scelgono di intraprendere un percorso psicologico per tutelare il proprio equilibrio mentale.

Nella survey ‘Genitori ai primi passi’ realizzata da Nestlé e Unobravo, il 60% dei neogenitori ha dichiarato di volere un supporto psicologico per affrontare la genitorialità, mentre solo il 4% ha intrapreso un percorso con professionisti.

«Nel mio lavoro clinico, vedo spesso genitori arrivare con la stessa domanda, anche se espressa in mille modi diversi: Cosa possiamo fare di più?” oppure Come possiamo fare meglio?”» racconta a StartupItalia Graziana Orefice, psicologa psicoterapeuta cognitivo-comportamentale in Unobravo «Ma spesso il problema non è “fare di più”. È proprio lidea che si debba sempre fare di più. Negli ultimi anni si è fatta più attenzione alla salute mentale dei genitori. Se ne parla di più, certo, ma lo stigma è davvero diminuito o si è solo trasformato? Oggi si può ammettere la fatica, purché ci si impegni subito a superarla. È come se dicessimo: Puoi essere imperfetto, ma solo se ti stai già migliorando.” Infatti, il mito del genitore perfetto” non è scomparso: si è solo spostato».

Il genitore perfetto esiste solo su Instagram

Nell’epoca dei social, la genitorialità è diventata un contenuto da condividere, analizzare, confrontare. Gallery curate, reel motivazionali, video di routine perfette: ogni gesto quotidiano si trasforma in racconto. E anche inconsapevolmente, in modello.

Una madre che mostra il suo meal prep domenicale o un padre che condivide una morning routine con i figli non sono il problema. Lo diventano quando il confronto genera frustrazione, quando la linea tra ispirazione e aspettativa si assottiglia fino a scomparire.

«Come scrive Brené Brown, “il perfezionismo non è lo stesso che cercare l’eccellenza. È una difesa contro la vergogna”. E uno dei meccanismi più insidiosi che spesso emerge in terapia è la doverizzazione, come la chiamava Aaron Beck»  spiega Orefice «È una distorsione cognitiva che trasforma ogni desiderio in obbligo morale, ogni possibilità in imperativo. Frasi come: “Devo essere sempre paziente”, “Devo capire mio figlio”, “Non devo mai perdere la calma”. Con il tempo diventano un copione silenzioso che guida e giudica ogni gesto».

Ma essere genitori oggi significa anche gestire un carico mentale costante e spesso invisibile. Non si tratta solo di fare, ma di anticipare, pianificare, contenere. Di essere una regia silenziosa e onnipresente, anche quando il corpo è altrove.

Secondo l’ISS, quasi una madre su quattro mostra già segnali di depressione nel periodo perinatale, con picchi del 29% in gravidanza e del 19% dopo il parto. In generale, una donna su cinque sviluppa disturbi depressivi o ansiosi in questa fase delicata.

E quando il ruolo di genitore prende piede con la crescita del bambino, il carico non si alleggerisce: cambia forma. I genitori con figli sotto i 6 anni riportano livelli di stress significativamente più alti nella gestione del tempo.

E in particolare, le madri risultano sovraccariche: in media, le donne con figli piccoli dedicano quasi il doppio del tempo al lavoro non retribuito rispetto agli uomini tra cura dei figli, gestione domestica, organizzazione quotidiana.

Un lavoro silenzioso e continuo, che spesso resta invisibile ma logora nel profondo.

Non stupisce allora che, secondo l’OCSE, oltre la metà delle madri dichiari di sentirsi sotto pressione nel tentativo quotidiano di conciliare lavoro e famiglia.

«La co-genitorialità, quando esiste, non può limitarsi alla presenza fisica: deve includere anche la pianificazione, la preoccupazione anticipatoria, la capacità di accorgersi quando qualcosa sta per andare storto. Come spiega la sociologa Monique Haicault, il carico mentale è “una doppia presenza”: essere al lavoro e pensare alla casa, essere a casa e preoccuparsi del lavoro.Nel caso della genitorialità, questa doppia presenza si moltiplica. Non è solo una questione di stanchezza» sottolinea Orefice «Il carico mentale cronico logora l’autoefficacia. Si traduce in insoddisfazione, senso di colpa, frustrazione per non riuscire a “reggere tutto” con serenità. Ma nessuno può farlo, da solo, senza mai fermarsi».

Solitudine, vergogna e mancanza di rete

Nel panorama attuale, è necessario sottolineare che sempre più genitori vivono in città lontane dalle famiglie d’origine, senza una rete reale di supporto quotidiano. In assenza di quel “villaggio” che un tempo condivideva fatiche, oggi tutto è delegato a servizi a pagamento dove disponibili o caricato sulle spalle di chi è “il genitore più presente”.

E quando si crolla, subentra il senso di vergogna: per non riuscire, per non essere abbastanza, per chiedere aiuto.

«La solitudine emotiva è uno dei fattori che può contribuire al burnout genitoriale»  racconta a StartupItalia Orefice «È quella sensazione di andare avanti per inerzia, come se ogni giornata fosse una maratona fatta di scadenze emotive. Si dorme poco, si lavora tanto, si prova frustrazione ogni volta che, davanti all’ennesima crisi, non si riesce a reagire come si vorrebbe. Non perché manchi l’amore, ma perché le risorse sono finite. Si diventa macchine operative: eseguire, portare, gestire. E ogni imprevisto rischia di far saltare il sistema. Non per mancanza di volontà, ma per saturazione cognitiva. In quei momenti entrano in gioco i sensi di colpa. Quelli che i genitori si portano addosso come un secondo zaino, oltre a quello che mettono ogni giorno sulle spalle dei figli. E il dialogo interiore si costruisce di frasi come “Sono troppo nervosa”, “Gli urlo troppo spesso”, “Dovrei avere più pazienza”. Chiedere supporto psicologico in questi casi non è debolezza, ma consapevolezza. È il primo passo per riscrivere le proprie regole, rivedere le aspettative, recuperare un po’ di respiro».

Un nuovo modello: imperfetto ma reale

Essere genitori, quindi, non significa essere eroi. Un nuovo modello di genitorialità sostenibile dovrebbe basarsi sulla presenza, non sulla performance. Sulla capacità di accogliere le emozioni, anche quelle più scomode. Sulla condivisione reale delle responsabilità mentali. Sul diritto, insomma, di fermarsi, ascoltarsi e chiedere.

«Nessun genitore può sostenere tutti questi “doveri” interiorizzati senza crollare. Il rischio è vivere in un costante senso di fallimento, anche quando si sta facendo il proprio meglio. A volte, in seduta, propongo di trasformare un “Devo essere un buon genitore” in “Vorrei essere un genitore presente”» racconta Orefice «E in quello spazio, qualcosa cambia: desiderare lascia la libertà di non riuscirci ogni volta. Dover essere non perdona. Alimenta un perfezionismo tossico che logora l’autoefficacia e la serenità quotidiana».

Perché se vogliamo davvero prenderci cura dei figli, dobbiamo iniziare col prenderci cura di chi li accompagna. Di chi è stanco, ma continua a esserci e mettersi in discussione.

«Forse è proprio questo che serve ai genitori oggi: uno spazio in cui restare, ascoltare, ritrovarsi. Il supporto psicologico può essere quel luogo. Non un angolo in cui confessare errori, ma un tempo per riappropriarsi della propria storia, rivedere le aspettative, sciogliere i sensi di colpa, recuperare respiro» – continua Orefice – «Chiedere supporto è un atto di coraggio. È il primo passo per riscoprirsi abbastanza. Anche quando si è stanchi. Anche quando si è imperfetti. Perché un genitore sereno non è chi non sbaglia mai, ma chi sa fermarsi, ascoltarsi e ripartire. Insieme».

Immagine in alto: photo credit Nicola Bolfelli