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Prima di pensare di poter chiudere i tanti gap di genere – le differenze di stipendio tra uomini e donne, per esempio, quelle di occupazione e opportunità di carriera, quelle di rappresentanza in politica e via dicendo – bisognerebbe correre a chiudere quello dei dati. Oggi sappiamo che in molti set di dati, mancano, oppure sono sottorappresentate le esperienze delle donne. Spesso, poi, i dati vengono filtrati da stereotipi di genere, che distorcono le realtà. O ancora, i dati non vengono disaggregati per genere, rendendo impossibile analizzare le differenze tra uomini e donne. Non che ci sia un complotto, un intenzionale accanimento, sia chiaro. Piuttosto, si tratta una negligenza sistematizzata, una sottovalutazione implicita, dunque nemmeno più percepita: è che le disuguaglianze di genere sono così radicate e la subalternità di quello femminile così introiettate da avere normalizzato il problema. 

Mind the data gap! 

Per dire dell’abisso delle lacune statistiche, all’Italia manca almeno la metà dei dati necessari a utilizzare i 72 indicatori di genere formulati dall’ONU nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (fonte: UN WOMEN): un corto circuito paradossale, considerato che l’Agenda ONU è nata proprio per eliminare le discriminazioni ai danni delle donne. Secondo le valutazioni ONU, questa lacuna di dati colpisce aree fondamentali per comprendere come raddrizzare definitivamente le storture delle discriminazioni tra uomini e donne: mancano, per esempio, dati che aiutino a capire la relazione tra donne e tassi di povertà, dati che facciano comprendere quanto le donne accedono agli asset di sviluppo e quanto no, dati che indaghino la relazione tra genere di appartenenza e ambiente: in questa ultima area, non esistono i dati di genere sulle morti imputabili all’inquinamento, per dire. 

Se si è invisibili, come si fa a contare? 

Quando la giornalista inglese Caroline Criado-Perez si è resa conto che bambine, ragazze, donne erano sistematicamente oscurate da molte mappature, ha cominciato a mappare lei, una per una, le loro invisibilità costruendo una articolatissima indagine dell’assenza, che ha trasformato poi in un libro: titolo Invisibili, appunto; sottotitolo Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano. In particolare, con la sua ricerca ha documentato come l’esperienza femminile venga sistematicamente ignorata e rimossa, e ciò avvenga persino in campi in cui ci si gioca la vita: Criado Perez ha, per esempio, indagato su come finora i test per misurare la capacità di sicurezza di certe auto abbiano usato manichini maschili quali modello rappresentativo di ogni altra corporeità o come, in infinite dimensioni della ricerca e della cura, la medicina si sia basata sul corpo maschile per trarre conclusioni scientifiche valevoli anche per quello femminile. 

Perché i dati sono oro per superare le discriminazioni 

Assenze di esperienza femminile così sfacciate rendono alla perfezione l’idea di quanti dati su bambine, donne, ragazze possano mancare a livello statistico. Non è che non si raccolgono mai dati sulle donne. I dati si raccolgono anche, ma quando si tratta di esaminarli non li si disaggrega per genere, ovvero non li si distingue da quelli maschili, come se uomini e donne fossero identici, le due metà della mela simmetriche e speculari che, invece, non possono essere. Invisibili è diventato un best seller, l’autrice ne ha fatto anche una leva per condurre battaglie per la parità che è riuscita a vincere, il Regno Unito le ha riconosciuto il titolo di Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico per il suo attivismo. Ce ne fosse bisogno, Caroline Criado-Perez ha dimostrato che per sgretolare le discriminazioni servono proprio i dati. I dati rappresentano l’arsenale di base per attaccare le disuguaglianze. Se non ci sono dati o non ce ne sono a sufficienza, non si riesce neanche a capire quanto profonde sono le disuguaglianze di genere, perché senza dati non si può fare la cosa più necessaria: misurarle. E se non le si misura, non si può neanche definire degli obiettivi concreti per superarle, così come verificare se, a un certo punto, sono state effettivamente colmate o sono lì, ancora intatte. 

Come la mettiamo con l’intelligenza artificiale? 

Questa voragine di dati diventa inquietante se accostata all’intelligenza artificiale, che di dati si ciba voracemente per esistere. L’intelligenza artificiale altro non è che lo specchio dei dati che ci sono, o non ci sono, dentro i suoi sistemi. Se i dati sono mancanti o sono pieni di lacune, l’intero sistema sarà lacunoso e, visto che sempre più tale sistema guiderà i medici nelle diagnosi o definirà nelle aziende chi assumere e chi no, impatterà negativamente sulla vita di tante donne. Che le donne siano rappresentate in completezza nei dati e in maniera corretta ed equa deve dunque diventare una priorità per chi quei sistemi li allena: oggi abbiamo molti più strumenti e, soprattutto, la sensibilità per farlo. Altrimenti gli svantaggi nella società si consolideranno e, in alcuni casi, si amplificheranno, spinti da una macchina trasformata dal suo motore processa-dati in un fenomenale moltiplicatore automatico di disuguaglianze.