Non smise mai di scalare, anche dopo che le fu diagnosticato il cancro: fino a 73 anni, ogni estate Junko Tabei saliva sulla vetta del Monte Fuji, 3776 metri, per accompagnare i ragazzini e le ragazzine delle scuole della città, nella provincia di Fukushima, in cui era nata a che nel 2011 era stata colpita dallo Tsunami.
Era il luogo delle sue storie, il Monte Fuji, da cui poteva raccontare la storia più grande, quella della sua conquista dell’Everest, avvenuta il 16 maggio del ‘75 dopo che scampò a una valanga, prima donna al mondo a toccarne gli 8848 metri della cima e a infrangere, così, l’epica di un himalayismo tutto maschile. E pensare che era una bambina minuta e di famiglia povera – era la quinta di sette figli di un tipografo -, limiti più che sufficienti per trattenerla anche solo dall’accostarsi al sogno di sfidare montagne da leggenda. Il papà suonava il violino e lei, che adorava suo papà, imparò a suonare l’arpa. Da ragazzina amava leggere, stare con gli animali, cercava nella natura le cose semplici. Si laureò in letteratura inglese, cominciò poi a lavorare come redattrice in una rivista e a insegnare musica ai bambini, ma le cime più alte del mondo continuavano a chiamarla.
Junko Tabei e il sogno anticonformista di scalare
Non aveva uno spirito antagonista e non pensava certo a intestarsi battaglie femministe, ma iniziò a frequentare l’ambiente dell’alpinismo, che era precluso alle donne, consapevole di rompere un tabù sensibile nella società giapponese. Neanche il fidanzamento e poi il matrimonio, nel ‘65, con il carismatico alpinista Masanobu Tabeifecero digerire la sua ostinazione nel perseguire il sogno anticonformista di scalare. Quando a trent’anni, nel 1969, fondò un club di alpinismo per sole donne con il proposito annunciato di “andare da sole in una spedizione all’estero”, si intestò un progetto totalmente controcorrente che negli anni a venire avrebbe portato l’alpinismo femminile sulle cime più audaci, a partire dall’Annapurna III, nel Nepal centrale, dove nel 1970 condusse la prima spedizione sulla via alternativa meridionale insieme ad altre otto donne: Junko e una compagna toccarono la vetta il 19 maggio, dimostrando che il corpo di una donna poteva quanto quello di un uomo, per non dire della forza della psiche e dei miracoli generabili dalla tenacia.
Il progetto “Donne giapponesi per la spedizione sull’Everest”
Tornata in patria, realizzò di desiderare che quel respiro di assoluto diventasse la cifra della sua vita e con la meticolosità e la pazienza che la contraddistinguevano cominciò a tessere la grande avventura della conquista del Tetto del mondo, l’Everest, attraverso il progetto “Donne giapponesi per la spedizione sull’Everest”. Non fu affatto facile convincere sponsor e finanziatori, tutti sostanzialmente certi che l’Everest non fosse cosa per donne e che per ogni donna che scalava una cima c’era una moglie e una madre (Junko aveva due bambini) che mancava di fare il suo dovere domestico. Ma all’ultimo, esattamente appena dopo che il governo nepalese le accordò il sospirato permesso di scalare il Tetto del mondo, la televisione giapponese e il più letto quotidiano, lo Yomiuri Shimbun, accolsero insieme la sua chiamata e, così, Junko Tabei nel maggio del ‘75 volò in Nepal, con quindici alpiniste, a capo della prima spedizione femminile alla conquista dell’Everest.
Al Campo 2, le tende del gruppo furono travolte da una valanga: non ci furono morti, ma alpiniste e sherpa rimasero feriti.
Il 16 maggio 1975, Junko Tabei fu la prima donna della spedizione a conquistare la vetta, e la prima in assoluto al mondo a toccare quello che definì “un tatami di neve”. Alle televisioni raccontò, poi, che in quell’attimo “tutto quello che ho sentito è stato sollievo”.
Seven Summits, un altro primato di Junko Tabei
Continuò a scalare e il 28 luglio 1992 completò – prima donna al mondo – l’ascesa delle Seven Summits, le montagne più alte di ciascuno dei sette continenti della Terra (sette secondo l’uso dei Paesi anglosassoni). L’ultima scalata la fece nel 2015, un anno prima di morire. Della sua vita disse: “Chi non osa affrontare nulla di nuovo non progredisce”.