Il boom delle valutazioni espone alla necessità di dolorose correzioni. Non è solo un tema di mercato: è soprattutto una questione di capitali e di visione
Gorillas lascia l’Italia, e lo fa sul più bello, a pochi mesi di distanza dalla sigla di un accordo tra l’azienda e i rider. A casa restano 540 dipendenti. Nessuno se lo aspettava nella divisione italiana. Fino al giorno dell’annuncio il clima nei magazzini era festoso – marchio di fabbrica della società, a differenza dei rider di altri servizi. Poi i giornali hanno dato la notizia, e la musica si è spenta.
L’azienda era arrivata nel nostro paese nella tarda primavera 2021. Lo slogan era, più o meno: se l’acqua bolle e hai dimenticato di comprare il sale, te lo portiamo noi prima che la pasta sia cotta.
Nata durante la pandemia, capace di incassare un round di serie C da un miliardo di euro pochi mesi dopo , riempiva un vuoto di mercato: i supermercati tradizionali effettuano consegne a domicilio, ma in ventiquattro o quarantotto ore. I nuovi campioni del delivery lo fanno in pochi minuti. La fiducia non mancava. E invece.
Visitare i magazzini
Avevamo visitato tra i primi in Italia i magazzini milanesi di uno di questi player (si trattava di Blok, poi acquisita proprio dalla turca Getir che ha così potuto sbarcare velocemente nel Belpaese). L’idea era quella di renderci conto di persona come fosse possibile mantenere in vita un modello che prevede consegne in dieci minuti.
Sulla strada del successo contava, sicuramente, l’esperienza dei fondatori, che di solito provengono da grandi gruppi del delivery; importante era una selezione attenta delle referenze a scaffale, estremamente limitata e corrispondente alle esigenze di specifici quartieri, che consentiva di ridurre le superfici necessarie; si pagavano, inoltre, affitti relativamente bassi perché i dark store – così si chiamano – non presentano per definizione la necessità di essere collocati in zone di grande passaggio e visibilità.
Eppure, qualcosa non tornava.
Bastava uno sguardo per capire che il modello era estremo. E la promessa dei dieci minuti era troppo alta per essere mantenuta. Avevamo sperimentato il servizio di Gorillas: funzionava. Certo, con la crescita della base clienti i tempi si sarebbero allungati, ma la GDO, con i suoi due giorni, restava a distanza di sicurezza.
Anche gli organici, e quindi i costi, avrebbero dovuto adeguarsi parallelamente alla diffusione del servizio. Avevamo provato a ragionare: dieci minuti per prendere la merce dallo scaffale, cinque per arrivare sotto casa del cliente, cinque per consegnare, cinque per tornare, cinque di pausa e poi ancora via: fa circa due consegne all’ora, con un ticket medio tutto sommato basso. I prodotti, a giugno 2021, non costavano molto di più di quelli del supermercato, al netto della scontistica cui siamo abituati nella GDO. Ma per i nuovi utenti c’erano una ventina di euro gratis e molte promozioni. La consegna, inizialmente gratuita, avrebbe poi avuto un costo.
Una campagna massiva di comunicazione (da milioni), contratti in regola per non rovinarsi la reputazione in partenza, bici elettriche: l’armamentario in campo era di tutto rispetto. E invece eccoci qui, a scrivere di una ritirata.
Gorillas, una scelta industriale
Secondo Luigi Strino, imprenditore nel ramo delle consegne che con la sua PonyU agisce da provider, tra gli altri, per marchi della GDO come PAM flash, ci sono due temi fondamentali, strettamente connessi: quello dei costi del marketing e quello dell’accesso al capitale.
“Il problema non è di mercato, ci sono paesi in cui il servizio dei dark store funziona ed ha dimostrato di essere sostenibile – dice a StartupItalia -. Il fatto è che quella di Gorillas è stata semplicemente una scelta industriale: concentrarsi sulle realtà che già funzionano. I piani di espansione sono cambiati rispetto all’esordio perché, nel frattempo, l’accesso ai capitali è diventato molto più difficile, e gli investitori non possono più supportare strategie che prevedono di andare a break even fra quattro anni. Strategie in cui si investono decine di milioni al mese per aprire un mercato. La crescita di Gorillas aveva costi esorbitanti”.
Pochi mesi fa YCombinator, il più noto acceleratore globale di startup, aveva spedito una lettera alle aziende che gravitano nella sua orbita (eccola) intitolata significativamente “Economic Downturn“: il management raccomandava di “prepararsi al peggio“. Fine della festa, di una crescita del mercato dei capitali che durava da tredici anni. Chi vuole salvare l’azienda, ammoniva il testo, faccia bene i conti. “Nessuno può predire quello che accadrà, ma le cose non si mettono bene”. “E’ vostra responsabilità assicurarvi che la vostra azienda sopravviva se non sarete in grado di raccogliere capitali nei prossimi ventiquattro mesi”. Tra i consigli, quello di tagliare i costi. Detto fatto.
Non solo delivery, le startup che stanno licenziando
Gorillas non è sola (Getir sta tagliando a livello globale, pare 4.500 persone) e il delivery non è l’unico settore coinvolto dal riflusso. Anche Klarna, scaleup del Bnpl (Buy Now Pay Later) ha licenziato 600 persone a fine maggio (il 10% della forza lavoro globale), ironicamente pochi giorni dopo aver inaugurato la sede italiana con una presentazione incentrata sulle ricadute positive dell’e-commerce sul territorio. Alla presentazione c’era anche il comune di Milano, dove l’azienda ha aperto la sede italiana. Anche l’ad Sebastian Siemiatkowski lamenta la congiuntura macroeconomica. I piani, questa la sintesi della missiva spedita ai dipendenti per spiegare la decisione, erano stati disegnati in un altro momento, e si sono rivelati sbagliati. E poi ci sono le aziende del fintech delle criptovalute, finite nell’occhio del ciclone e che stanno sfoltendo gli organici, quando non proprio chiudendo i battenti. Coinbase ha annunciato tagli per il 18% dell’organico a inizio giugno, circa 1.100 persone. Bitpanda riduce del 34%, pari a circa trecento lavoratori. Ma anche Robinhood e Crypto.com hanno annunciato licenziamenti significativi, come accaduto nel 2018, prima del nuovo, recente boom, cui ha fatto seguito l’ennesimo crollo. E poi la salute digitale (Kry, cento persone in esubero), l’online learning (Domestika, 150 su 800), auto usate (Cazoo, 750 persone).
Il problema è saperlo
Si poteva prevedere? Facile rispondere di no: ma il problema non è avere la sfera di cristallo. E’ la crescita abnorme, drogata.
Nel digital marketing di parla di crescita organica quando si guadagnano follower con attività di comunicazione dotate di valore intrinseco; questo modello, che porta pubblico fedele, si contrappone alle inserzioni, in grado di veicolare il messaggio a milioni di persone, accomunate da una caratteristica: sono perlopiù poco interessate. Fumo negli occhi, buono a gonfiare le metriche.
Attorno alla definizione di Steve Blank (la startup è un’organizzazione temporanea alla ricerca di un modello di business prevedibile e scalabile) sono nati gli ecosistemi che conosciamo, molte tecnologie oggi universalmente diffuse e anche un certo grado di sviluppo economico, se vogliamo dimenticarci del precariato digitale, della manovalanza a mille euro e delle città in cui gli affitti alle stelle hanno allargato la categoria dei working poor persino agli ingegneri (come a San Francisco, dove dormire in macchina non è più cosa da homeless).
Ma la narrazione, i lustrini e le paillettes hanno nascosto un punto fondamentale: questo modello-razzo prevede la possibilità di dolorose quanto estemporanee correzioni di rotta. Soprattutto in un mercato dei capitali dominato da pochi giganti: quando cambia il vento, sono dolori per tutti. Il problema è saperlo, e accettarlo.
Se in America, dove lo stato sociale è pressoché inesistente, l’ottovolante del mercato del lavoro è nel DNA, in Europa , per una questione culturale, le cose vanno diversamente. I nuovi contratti consentono flessibilità e non legano più a doppio filo il datore di lavoro al dipendente: così, basta poco per mandare tutti a casa.
La politica non è senza colpe: stende tappeti rossi quando un grande player si presenta annunciando centinaia di assunzioni, ma quasi mai pretende impegni vincolanti. Così, bastano due trimestrali negative, e puf, si va via. Peraltro, trattandosi in larga parte di business digitali, dove la vera forza è l’algoritmo e tutto il resto as a service, mancano asset fisici in grado di fare da contrappeso.
Non rischiano solo i ragazzi, ma anche i manager quarantenni assunti con gli stipendi altissimi che caratterizzano le fasi di espansione (“quanto guadagni da loro?”), e che faranno fatica a ricollocarsi: per provarci, già scrivono post empatici su Linkedin.
Insomma: siamo sicuri che non sia arrivato il momento di ripensare questo schema? Le startup che in pochi mesi raccolgono miliardi, di organico hanno poco, a volte solo il packaging bio. Strino resta ottimista: “Quanto accaduto apre delle grandi opportunità per l’Italia, per i player che sono inspiegabilmente rimasti indietro come quelli nostrani della GDO; hanno tutto quello che serve per entrare in questo business”. Ma, viene da dire, meglio tenere gli occhi aperti.