Dieci cartoline dalla Sicilia dell’innovazione, simboli di una regione che vuole rinascere anche grazie alla scena delle startup. E all’eccellente qualità delle idee e delle persone che la animano
Sciàtu in siciliano significa respiro. Fiato. Se si guardano con attenzione le opere di Renato Belluccia, designer, maker, 25 anni di Gela non si può evitare di perdersi nelle venature antiche delle sue lampade. Carcasse di Fico d’India che diventano arte. La loro secchezza arrostita dal sole rinasce col soffio del suo lavoro. Dell’ingegno. Dell’innovazione. Hanno un vestito nuovo. «Una nuova anima luminosa». Le piante le trova nelle campagne intorno alla sua città. Dove sorge ancora il Polo petrolchimico. Depotenziato, spettro oramai di un passato industriale, ma ancora presente. Lì a sbuffare in aria calore a migliaia di gradi. Chiunque sia passato in estate da quelle parti ha notato quelle ciminiere. Ma soprattutto quelle piante rinsecchite al lato delle strade, svuotate dai 40, 43 gradi di agosto. Sciàtu, quindi, per farle rinascere. Una nuova spinta vitale. La capacità di un’isola intera di ripensarsi, rinascere, dalle ceneri delle industrie, della sua storia, partendo da quello che ha. Anche quando non è altro che carcassa.
In Sicilia ci sono 263 startup, dice il registro. Catania e Palermo ne hanno rispettivamente con 90 e 80 startup. E poi Agrigento (19), Messina (34), Siracusa (12), Trapani (11), Caltanissetta (9), Enna (3). Crescono, e tanto. Solo cento in più nell’ultimo anno. Il tasso di crescita per numero tra i più alti in Italia. Si muovono principalmente attorno ai due poli del sapere principali della regione. L’Università di Palermo e quella di Catania. Pochi ancora i round di investimento degni di nota. Spesso si tratta di seed e microseed investment, pochi soldi se vogliamo che scalino a livello globale. Per rimanere in metafora, lo sciàtu degli investimenti manca ancora. Ma qualcosa sta cambiando, e altre cambieranno nei prossimi anni. Perché le basi ci sono. Lo dicono i numeri, sì, ma anche la qualità delle idee e quella delle persone che popolano l’isola. Quelle che sono rimaste, che lottano qui e fanno impresa qui. Ma anche quelli che sono andati via. Costretti, o per scelta.
In una regione con tanti talenti costretti a partire per crescere c’è un piccolo paradosso: c’è stato un tempo in cui una delle sue città più rappresentative, Catania, era chiamata la «Milano del Sud». Proprio per la sua capacità di attrarne di talenti. E attrarre grandi imprese. Qui Nokia, Vodafone, IBM, Alcatel avevano scelto di venire qui per fare ricerca e sviluppo di nuove tecnologie. L’Etna Valley, così veniva chiamata, negli anni del suo maggiore splendore occupava 5mila ragazzi da tutta la Sicilia e non solo. Migliaia di aziende nell’indotto. Un’alchimia perfetta di università e Cnr che dopo ha avuto alterne fortune e oggi, quello che rimane, è la rete di talenti che ha sviluppato.
«L’eredità dell’Etna Valley è lo spirito collaborativo. Finalmente, al di fuori degli schemi tradizionali della politica dei compromessi, si è sviluppato un modello di collaborazione fra attori forti del territorio. Oggi, si assiste ad analoga tensione associativa anche nel mondo delle startup, sebbene parlare di un vero e proprio ecosistema sia un po’ prematuro. C’è una rete nascente e a maglie strette fra attori diversi del mondo delle startup, questo sì. C’è uno spirito collaborativo bello e sano, che lascia ben sperare per il futuro» ha detto a StartupItalia.eu Rosario Faraci, professore di Economia all’Università di Catania.
Le eccellenze rimangono. A volte nascoste. Invisibili. Come C3DNA, una startup nata a Catania da Giovanni Morana, 38 anni di Pozzallo e Daniele Zito, 35, di Siracusa. Una startup ad alto tasso ingegneristico. I ricercatori di Catania hanno elaborato un sistema più efficiente per la gestione di dati e servizi all’interno del cloud computing. I due ingegneri, hanno elaborato un sistema per fare comunicare tra loro applicazioni come Dokers e Openstack, due delle tecnologie più diffuse per racchiudere informazioni, dati e gestire virtual machine. Nel 2014 hanno ottenuto due milioni di dollari da un investitore americano che ha portato lì la società mentre ricerca e sviluppo rimane in Sicilia.
Sempre di Catania è Ganiza, la startup che ha avuto l’onore di pitchare davanti a Tim Cook, ceo di Apple, durante l’incontro con il premier Matteo Renzi che ha sancito la nascita del centro di sviluppo Apple a Napoli. Ganiza è ancora piccola, è un simbolo. Un esempio che racconta che le cose è possibile farle anche in Sicilia ed era lì con startup più solide (e molto più finanziate) come Doveconviene e Musement . L’app è stata creata da Valentino Romano, 40 anni, e Daniele Virgilito, 30 e accelerate da Tim #WCap a Catania. Poco dopo hanno ottenuto il primo seed. Poi hanno creato un’app che organizza le serate con gli amici, decidendo quello che si deve fare. La mano di Cook, un seed, e 5mila early adopters. E’ qualcosa. Qualcosa che nasce.
Ma c’è anche chi è già bella cresciuta. Mosaicoon. La startup siciliana dei record. La prima ad essere stata selezionata tra le scaleup europee ad andare in Silicon Valley. Quella di Mosaicoon da molti è considerata una storia esemplare di cosa vuol dire fare startup in Italia. Non solo per i numeri che è stata in grado di generare, con un fatturato in costante ascesa, cresciuto a ritmi del 100 percento ogni anno fin dal 2010, anno di fondazione della startup. Ciò che di fatto ha permesso all’azienda di fare il salto di qualità è aver ottenuto un investimento da 3 milioni di euro da Vertis e Atlante ai tempi del fondo HT per il Mezzogiorno. 85 milioni che hanno finanziato le neo aziende innovative del Sud e che a Palermo hanno sicuramente centrato il segno, tanto da fare di Mosaicoon una delle aziende più citate come casi di successo di quel fondo. Oggi impiega 80 persone, molte siciliane, ma un buon 15% arriva da altre regioni italiane e qualcuna da Spagna e Stati Uniti.
Potrebbe sembrare un paradosso: nella terra che vive ancora oggi forti difficoltà di mobilità, con strade e autostrade ridotte in condizioni critiche, nasce una startup che sta scalando il modo di pensare il trasporto su rotaia nel mondo. «Abbiamo progettato e brevettato una traversa ferroviaria ecosostenibile, ottenuta in parte da pneumatici fuori uso e plastica riciclata», racconta Giovanni De Lisi, fondatore di GreenRail.
Perché per Giovanni non ci sono dubbi: «Il futuro della mobilità sostenibile è sul binario». Proprio lui a diciannove anni, durante gli studi universitari, inizia a lavorare nel settore della costruzione e manutenzione dei binari. E quattro anni fa la scoperta sul mercato mondiale di traverse ferroviarie in plastica e gomma riciclata. «Strutture che tecnicamente possono sostituire esclusivamente le vecchie ed ormai poco usate traverse in legno», Così nel 2012 nasce GreenRail, che ha progettato e brevettato una traversa ferroviaria ecosostenibile, ottenuta in parte da pneumatici fuori uso e plastica riciclata. Oggi un chilometro di linea GreenRail smaltisce 50 tonnellate di pneumatici fuori uso e 50 tonnnellate di plastica, e può produrre sino a 120kwh di energia. Numeri che fanno rabbrividire, pensando alla bassa sostenibilità dei trasporti tradizionali.
C’è un aspetto curioso delle startup siciliane. Sembrano tutte polarizzate tra produttori di altissimi prodotti software e produttori di ingegnose soluzioni hardware. Software è C3DNA, Ganiza, Flazio, Mosaicoon. Hardware sono Wib Machine, Greenrail, Orange Fiber. I casi più di successo vengono quasi perfettamente divisi in due. Ed è anche grazie al tessuto produttivo locale che è potuto succedere. E alle competenze dell’Università di Palermo e Catania. Incubatore universitario Arca da un lato e Tim #WCAP dall’altro. In una fase di scena così embrionale, questi sembrano i due assi intorno a cui si potrà creare un ecosistema più maturo.
A Favara un piccolo miracolo. Park Cultural Farm. Un’iniziativa di innovazione sociale senza scopo di lucro. È un progetto di innovazione sociale che muove dall’idea che quel posto «può renderti felice» come dice lo slogan. Da Favara sono passati molti artisti. Alcuni hanno alloggiato nella residenza a loro dedicata e i visitatori con loro hanno avuto l’occasione di confrontarsi. Già, perché l’esperimento del Farm cultural park ha un valore soprattutto per le relazioni personali che è riuscito a creare: «A noi piace definirlo un museo delle persone più che delle cose». Eccolo il fiato che sta ridando ad ogni latitudine nuova linfa vitale alla Sicilia. La sua forza di rinascere. Di arrampicarsi come la tartaruga simbolo di Cultural Farm su un muro scalcinato di un cortile che rivive al suo passaggio. Tutto quello che serve. La forza che rende possibile l’impossibile. Sciàtu.
Arcangelo Rociola
@arcamasilum
Queste sono immagini simboliche, che non possono né vogliono essere totalmente esaustive di quello che è la Sicilia delle startup e dell’innovazione. Ma che ne raccontano alcune direttrici di fondo che racconteremo martedì 17 maggio a Palermo.