Ci sono almeno tre fattori che giocano a favore dell’azienda di Shenzhen nella questione che la vede contrapposta agli USA. E uno, forse il decisivo, potrebbe arrivare dall’Europa
Questa settimana a Monaco di Baviera ho assistito a una delle conferenze stampa di lancio prodotto più surreali a cui mi sia capitato di partecipare. Non ci sono stati particolari inconvenienti sul palco, non c’è stata una schermata blu come in uno dei più incredibili incidenti da keynote della storia, e il prodotto presentato (il Mate 30 Pro) è davvero bello e ben fatto. Ma dopo 90 minuti di annunci sul palco mancava la risposta alla domanda che tutti avevamo posto prima dell’inizio. La risposta che tutti noi giornalisti aspettavamo, che aspettavano anche milioni di utenti di uno dei marchi di maggior successo degli ultimi anni: cosa succederà ora agli smartphone Huawei?
Richard Yu, il CEO della divisione consumer, non ha volutamente fornito una risposta diretta a questo interrogativo: lo ha fatto probabilmente per non alimentare la polemica, per placare gli animi. Però ha distribuito qualche indizio, e il resto lo ha lasciato all’immaginazione e alla speculazione degli addetti ai lavori. Dopo averci riflettuto su, chi scrive pensa che la situazione sia molto ingarbugliata al momento: ma per Huawei ci sono almeno tre elementi che giocano a suo favore. Soprattutto perché il ban imposto dagli USA è una scommessa: ed è una scommessa rischiosa, che potrebbe finire per causare più danni agli USA di quanti non ne possa creare a breve termine a Huawei.
La questione tecnica
Huawei ama Android: perché è un sistema operativo maturo, interoperabile, lo potremmo definire universale. Gira su una vastissima tipologia di dispositivi, consente di creare una catena di montaggio di design-sviluppo-rilascio dei prodotti decisamente più rapida ed efficiente di quanto non si potrebbe fare dovendo di volta in volta elaborare l’integrazione tra hardware e software scritto ad-hoc. Per questo anche il nuovo Mate 30 Pro è stato sviluppato con a bordo Android come sistema operativo: risparmiare risorse per lo sviluppo software consente di concentrarle su altri elementi che in questi anni hanno fatto grandi passi in avanti. Pensate alla fotocamera.
Il fatto che gli esemplari di Mate 30 Pro che abbiamo avuto modo di vedere e provare a Monaco di Baviera montassero Android 10 in versione AOSP, privi insomma delle app come Gmail o Google Maps, non significa che non possano essere venduti anche con i Google Mobile Services (GMS) a bordo. Lo sviluppo di un terminale come il Mate 30 Pro richiede mesi di lavoro: è iniziato appena dopo il lancio del Mate 20 lo scorso anno, quindi i tecnici di Shenzhen avranno lavorato fianco a fianco con quelli di Mountain View per completare il lavoro di adattamento di Android sul nuovo dispositivo. Se arriverà da parte del Segretario del Commercio USA la firma sull’eccezione al bando imposto a Huawei, se la licenza per i GMS potrà essere firmata, lo sbarco di Android 10 completo di tutto sul Mate sarà faccenda di poche ore: questione di rilasciare un aggiornamento al software e sembrerà che tutto questo non sia mai successo.
Questo non significa che Huawei non debba continuare a perseguire una strategia a doppio binario, che preveda in parallelo lo sviluppo del suo HarmonyOS: un’alternativa è sempre una buona idea, sia per mettersi al riparo da situazioni come queste dove si mostra plasticamente cosa significa un monopolio di fatto (si chiude il rubinetto di un componente e si strozza un intero business di un’azienda), sia per sviluppare soluzioni su misura che possano consentire di proporre qualità e caratteristiche inedite ai consumatori.
Infine, e attenzione qui si gioca molto della questione, preparatevi a un po’ di sorprese da qui in avanti. Innanzi tutto ci sarà il rilascio di Android 10, completo e attrezzato di tutto punto, per molti terminali Huawei: la beta su P30 è stata annunciata, seguiranno gli altri (che nel frattempo continuano tranquillamente a funzionare). In secondo luogo, ci potrebbe essere anche qualche terminale pronto al lancio che ha ottenuto la licenza GMS prima del bando e che arriverà sul mercato nei prossimi mesi: è successo per esempio con il Mate 20X 5G e – sebbene mancherà almeno per un po’ all’appello il Mate 30 Pro – questi sono segnali che rasserenano il mercato e la clientela. Nella peggiore delle ipotesi, insomma, per ancora un bel po’ di settimane ci sarà movimento: a quel punto, sarà arrivata la primavera del 2020, il P40 sarà in rampa di lancio e HarmonyOS avrà raggiunto un grado di perfezionamento tale da consentire di farlo debuttare.
La strategia commerciale
Android è oggi un ottimo esempio di come si sviluppa un sistema operativo per garantire una interoperabilità la più ampia possibile. Google ha avuto una bella intuizione quando ha deciso di puntare su questa piattaforma, acquisendola da Andy Rubin nel 2005 e mettendo le sue enormi risorse a disposizione per svilupparla. Oggi Android equipaggia smartphone, tablet, smartwatch, TV, gira su piattaforma ARM e pure su x86, ha consentito di mettere in piedi un mercato per il software che coinvolge miliardi di utenti, miliardi di dispositivi e miliardi di dollari di fatturato. Android è un grande successo: ma è anche un giogo imposto sulle spalle di tutti i produttori di smartphone, che di fatto non hanno alternative e devono sottostare alla direzione impartita da Google allo sviluppo del software, e per gli sviluppatori che devono lasciare a Google il 30 per cento di quanto guadagnano su Play Store.
Quello che è Android oggi è uno standard “di fatto” in questo settore: il 90 per cento circa degli smartphone in circolazione sul pianeta monta Android. Alla luce di quanto accaduto, però, potremmo spingerci nel definire lo stesso Android come un monopolio “di fatto”: sia ben chiaro, qui non parliamo di quanto successe negli anni 80 con le licenze per processore imposte da Microsoft agli OEM, non c’è nessun motivo concreto per immaginare che l’antitrust debba punire Google per il successo del suo OS (sulle app è andata diversamente: ma anche qui, a giudizio di chi scrive, non ci sarebbe dovuto essere motivo particolare per intervenire). Di sicuro però se non sei Apple e oggi vuoi lanciare uno smartphone sperando di venderne milioni di esemplari hai bisogno di Android, di ottenere una licenza (a pagamento) da Google per le sue app tra cui il Play Store. Se ti viene negata per ragioni che non sono di natura tecnica, ti ritrovi a dover competere in un match di boxe con le mani legate dietro la schiena.
Quello che è accaduto dopo l’iscrizione di Huawei nella entity list, la lista di proscrizione che proibisce di fare affari con le controparti USA, è che Google ha dovuto far rispettare una decisione di natura politica e si è trasformata suo malgrado in un organismo esecutivo del Governo di Washington. A oggi nessuno, proprio nessuno, ha fornito al pubblico una prova concreta che effettivamente Huawei costituisca un rischio per la sicurezza degli Stati Uniti: però Google ha dovuto fare marcia indietro e ha creato una distorsione sul mercato, tagliando fuori il numero 2 delle classifiche di vendita a livello planetario e dovendo quindi rinunciare pure a guadagnare dalla vendita delle licenze GMS.
Huawei a questo punto ha in mano da giocare un paio di assi. Il primo è che ha le tasche piene, il secondo è che non essendo una società quotata non deve rispondere alla Borsa e agli azionisti. Quindi può permettersi di spendere senza dover necessariamente veder fruttare i suoi investimenti nel breve termine, e può decidere di sfruttare la propria liquidità per far crescere il proprio peso specifico soprattutto nel mondo delle app: il miliardo di dollari di investimenti nella piattaforma Huawei Mobile Services (HMS), promesso da Richard Yu alla fine del suo keynote, c’è da scommetterci è solo l’inizio di una offensiva volta a creare un’alternativa globale credibile a Play Store.
Non sono l’unico a pensarla così: Emanuele Cisotti e Nicola Ligas su AndroidWorld la pensano come me, Huawei ora si lancerà nello scouting di sviluppatori importanti che possano costituire un valore aggiunto per la sua App Gallery, li lusingherà a colpi di incentivi economici (a loro va l’85 per cento del valore delle vendite, contro il 70 di Play Store), di prospettive di crescita (non ci sono gerarchie consolidate su App Gallery) e di pubblico formato da milioni di consumatori affezionati che hanno acquistato e continueranno ad acquistare gli smartphone di Shenzhen.
Certo non si può banalizzare la questione tecnica: se non ci sono G-Pay o Google Maps, uno smartphone oggi non vale quanto uno che invece li ha a bordo. Però, come dimostra il lavoro svolto nel mondo della fotografia in questi anni da Huawei, quando ci si mettono d’impegno i cinesi sono capaci di raggiungere risultati importanti. Con gli investimenti giusti, una strategia corretta e un pizzico di fortuna potremmo veder nascere un’alternativa concreta al duopolio iOS-Android. Una piattaforma capace di raccogliere clienti in Cina e nel resto del mondo, che potrebbe fare gola anche ad altri OEM magari anche grazie ad accordi specifici che permettano di offrire app e giochi in esclusiva.
Il fronte politico
Per chiudere il ragionamento manca un solo tassello dei tre promessi: è l’aspetto politico di tutta la vicenda USA contro Huawei. Innanzi tutto, vale la pena sottolineare come stiamo parlando di una nazione, che si professa liberale, contrapposta a un’azienda privata: già questo aspetto dovrebbe far sollevare qualche sopracciglio, cos’è che spinge un Paese a mettere all’indice una società? Fin qui la Cina si è tenuta, giustamente, piuttosto defilata almeno pubblicamente da questa faida: far calare il proprio peso sulla mischia avrebbe finito per far irrigidire la situazione, che invece per ora resta ancora piuttosto fluida.
Certo è che bisogna cercare di capire perché Trump abbia deciso di attaccare frontalmente Huawei. La spiegazione, lo dice anche Ugo Barbara dalle colonne di AGI, è molto semplice: gli USA stanno disperatamente cercando di recuperare posizioni nella corsa al 5G. Huawei vanta oggi un primato tecnologico, con centinaia e centinaia di brevetti registrati, così come industriale: in tutto il mondo ha accumulato decine di contratti firmati con gli operatori telefonici per la realizzazione delle nuove infrastrutture. Gli Stati Uniti stanno tentando di scardinare questa supremazia. La verità è che a oggi non c’è un’alternativa concreta a Huawei: certo ci sono Nokia ed Ericsson, ma Huawei ha accumulato un vantaggio davvero significativo in questi anni.
Gli USA hanno scommesso di poter fare a meno di Huawei per poter controllare l’infrastruttura di comunicazione che garantirà i massimi profitti economici e strategici nei prossimi 10 anni. La sicurezza c’entra poco: è questione di affari, di fare affari e di guadagnare dalla vendita di antenne e apparati, così come dai servizi che viaggeranno sulle linee 5G. A questo punto Huawei ha giocato una carta importante: per bocca del suo fondatore ha fatto sapere che non ci sarebbe alcun problema nel cedere le proprie tecnologie 5G ad un’azienda europea – se questo servisse a far dormire sonni tranquilli all’inquilino della Casa Bianca, che tra l’altro non ci resterà per sempre – di fatto scaricando un’arma in mano alla controparte.
A mancare fin qui nel dibattito, poi, è stata la voce dell’Europa: qui da noi nel Vecchio Continente Huawei è importante sia nel mercato delle infrastrutture che in quello dei device (il numero di smartphone Huawei venduti negli USA è praticamente zero), dunque è proprio il nostro il mercato a risentire in modo più clamoroso delle scelte operate dall’altro lato dell’Atlantico. Dietro le quinte, molto probabilmente, Huawei starà lavorando per cercare di ottenere l’appoggio della politica e dei suoi partner europei: non si capisce per quale motivo debbano essere gli Stati Uniti a decidere per tutti quali antenne usare e quali cellulari acquistare. A farne le spese sono i consumatori finali, che rischiano di avere reti meno veloci e meno scelta sullo scaffale dei negozi di elettronica.
Proviamo a immaginare uno scenario che incrocia politica e affari (con una bella dose di fantasia si intende). L’Europa si schiera al fianco di Huawei, o meglio di un’azienda europea che abbia acquisito la tecnologia 5G Huawei per le infrastrutture di telecomunicazione, azienda che ovviamente cederebbe in licenza a Huawei per costruire antenne e apparati. Huawei riesce a costruire un consorzio alternativo alla Open Handset Alliance che sostiene Android, facendo convergere attorno ad HarmonyOS o al suo marketplace App Gallery gli interessi di tutti gli OEM cinesi che producono smartphone: Oppo, Xiaomi, Blu, Motorola e chiunque altro oggi faccia affidamento su Android e che, per un motivo qualsiasi, potrebbe trovarsi nell’arco di una notte nella stessa situazione di chi si è ritrovato improvvisamente privato delle licenze GMS.
In un colpo solo la scommessa di Donald Trump si ritorcerebbe contro gli USA, che non riuscirebbero a riacquistare il controllo dell’infrastruttura e perderebbero anche quello dei dispositivi. Google venderebbe meno licenze, il mercato andrebbe incontro a una frammentazione che gioca sempre a sfavore dei consumatori. Tutto questo è per ora solo frutto dell’immaginazione: ma se in 32 anni Huawei è stata in grado di crescere fino a diventare un interlocutore degli Stati Uniti sullo scacchiere della politica internazionale, cosa le impedirebbe di gettarsi anima e corpo nel tentare di trasformare questo sogno in realtà? Il migliore alleato possibile per Huawei è proprio l’Europa: proprio qui da noi da Shenzhen hanno già fatto sapere di voler investire. Questa partita, questa sì che è una scommessa sicura, è tutt’altro che chiusa.