Una serra modulare stampata in 3D per la produzione di cibo in orbita, con un sistema d’irrigazione che ricicla l’acqua di scarico prodotta a bordo. Siamo di fronte a una rivoluzione per l’alimentazione degli astronauti?
Portare cibo nello spazio per missioni di lunga durata è da sempre uno dei primi problemi per gli astronauti: nutrire l’equipaggio e mantenere inalterato l’ambiente della navicella per anni rappresenta da sempre una sfida importante.
Da Gagarin a Cristoforetti, come si mangia in orbita
Sin dalle prime missioni ci si è interrogati su cosa si potesse mangiare e già con Jurij Alekseevič Gagarin iniziarono i primi esperimenti. Per 108 minuti di permanenza nello spazio, al russo vennero consegnati tre tubetti, soprattutto per verificare se sarebbe stato in grado di ingoiare e a digerire. Sembravano tubetti di dentifricio, ma in realtà due di essi contenevano una purea di carne e verdura e l’altro una specie di crema di cioccolato. Armstrong ed Aldrin, nel 1969, inaugurarono l’utilizzo dell’acqua calda per i cibi. Questo stratagemma è valido ancora oggi: il riso al pesto di Luca Parmitano e la quinoa di Samantha Cristoforetti preparati dalla Argotec di Torino, hanno bisogno di un’aggiunta d’acqua per poter essere consumati. Le Missioni Apollo sono anche famose perché inaugurarono il consumo di caffè nello spazio, anche se pare che quella bevanda avesse solo lo 0,5% del sapore di caffè, e siamo pressoché certi che quello recentemente bevuto da Cristoforetti a bordo della Stazione Spaziale Internazionale sia stato di qualità superiore.
Con gli skylab americani degli anni ’70, in pratica grossi laboratori orbitanti, progenitori delle stazioni spaziali internazionali, compaiono i primi tavolini con forchette calamitate e i primi frigoriferi e congelatori. Oggi, sulla Stazione Spaziale Internazionale, il frigorifero non c’è più perché consuma troppa energia e si è preferito optare per il confezionamento di cibi a lunga conservazione. Insomma, nello spazio la ricerca e la sperimentazione di nuove tecnologie alimentari sono continue. Quindi perché non immaginare un futuro in cui il cibo crescerà direttamente all’interno delle navicelle?
L’idea di portare un orto nello spazio è corretta, ma è anche difficile da implementare. Non solo perché dovrebbe produrre cibo a sufficienza per la tavola, ma anche perché dovrebbe essere sufficientemente flessibile per adattarsi alle mutevoli esigenze dell’equipaggio, modificando la produzione a seconda delle necessità.
AstroGro, una serra spaziale
La soluzione a questi interrogativi potrebbe trovarsi in uno dei progetti realizzati per il contest Print Your Own Food 2015 indetto dalla NASA. I creatori di AstroGro, a differenza dei numerosi che in questi anni hanno scelto di concentrarsi sulla stampa 3D di cibo, hanno scelto di stampare il dispositivo con il quale coltivarlo, creando così un pod modulare per la crescita delle piante.
Una sorta di piccola serra, all’interno della quale è possibile far nascere e coltivare gli ortaggi. La struttura è interamente stampata in 3D, mentre alcune strisce LED si occupano dell’illuminazione e del riscaldamento. Il piccolo ecosistema è monitorato da un macchinario che misura l’assorbimento delle frequenze radio. Due antenne regolate sui 2,45 GHz, la frequenza di assorbimento delle molecole d’acqua, rilevano un parametro in base al quale è possibile valutare se la pianta è correttamente idratata o meno. L’acqua utilizzata dalla serra, poi, è frutto del riciclo di quanto prodotto a bordo dall’equipaggio, il pod è contenuto in un frame esagonale in continua rotazione per bilanciare gli effetti dovuti all’assenza di gravità, tutte le funzioni possono essere comandate da remoto mediante una app per smartphone. Inoltre, la struttura può essere smantellata e il materiale utilizzato per una nuova stampa in caso di rotture o per apportare un miglioramento dal punto di vista tecnico.