Foodora è diventato un caso mediatico. Ma ci sono degli errori di fondo, voluti o meno, su come si sta trattando la questione. E no, non c’entra nulla la sharing economy né il digitale ma l’idea di un lavoro che Foodora non è
Chi in questi giorni ha avuto la possibilità di incrociare i manager di Foodora nella sede di Torino racconta che hanno l’aria visibilmente tesa. Ieri l’ultimo sit-in dei riders, i collaboratori della startup. Oggi un altro. Altri ce ne saranno. Si va avanti così. Da parte dei “capi” finora non è trapelato nemmeno un commento. E possiamo capire perché. Sono circondati dalle proteste e da giornalisti che raccolgono voci di dipendenti arrabbiati.
Un copione classico, che piace a giornali e tv. Si è alimentato così un caso diventato mediatico e che avrà altri capitoli: La Gabbia stasera (mercoledì 12 ottobre) su La7, domani probabilmente nella seconda serata di Petrolio su Rai1. Chissà cosa altro poi. Ma è un caso che secondo noi si sta costruendo su una distorsione radicale del concetto di “lavoro” applicato a questo genere di economia.
1. L’errore di chiamarla sharing economy
La chiamano sharing economy. E sharing economy Foodora non è. Meglio sarebbe chiamarla col suo vero nome: gig economy, o “economia dei lavoretti” (qui Simone Cicero spiega bene cosa è). Perché di questo stiamo parlando. Lavoretti fatti per arrotondare. Come se ne sono fatti sempre e che continueranno a essere svolti come prima. Solo in modo un po’ diverso.
Un po’ più smart, forse. E forse un po’ più finto. Ma sempre a cottimo. Come la pizzeria non ti dava contratti decenti e paghe orarie 10 anni fa, non te li daranno Foodora, Deliveroo o Just Eat. Ci puoi fare uno stipendio vero con un lavoretto? No. Ora come allora.
2. L’abbaglio di considerare un “lavoretto” un lavoro vero
Difficile non pensare che la crisi occupazionale giovanile diffusa in Italia abbia portato alcuni ragazzi a sperare che questi lavori potessero diventare un lavoro. Se non uno stipendio, quasi. Ma non sono nati per quello. Li abbiamo sentiti. Letti. Molti di loro sono laureandi o neo laureati in attesa di prima occupazione. Alcuni hanno 35, 40 anni.
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Cosa ci dice il caso Foodora sul futuro del nostro lavoro
Si impegnano, percorrono chilometri, aspettano speranzosi una chiamata per guadagnare qualche decina di euro. Vedersi diminuito il compenso da 5 a 2,70 euro a chiamata li ha delusi. Ne è nata una protesta. Legittima. Non si sono limitati a dire: «beh, di questo lavoretto alla fine possiamo farne a meno, me ne cerco un altro». Ma hanno chiesto migliori condizioni di lavoro, perché forse un altro lavoretto come quello che offre Foodora al momento manco c’è.
Ecco. E’ il grande fraintendimento del “lavoretto” nell’epoca della crisi. E l’altro grande fraintendimento dell’altro soggetto sul banco degli imputati: la digital economy. Che il lavoro lo crea davvero. Ma di qualità, non (solo) lavoretti per una società di food delivery. Questo è un abbaglio madornale.
Perché, a guardarli da vicino, sono gli stessi lavoretti che prima si cercavano affiggendo annunci sui lampioni e alle edicole sotto casa. Ma ora passano da piattaforme che offrono a chiunque la possibilità di proporsi per svolgere un pezzetto di un disegno più ampio. Moltiplicando le occasioni (le offerte).
Ma azzerando via via le garanzie. Tuttavia è anche vero che quelle garanzie non c’erano neanche prima. Forse è cambiata l’età di chi li fa. Prima erano lavoretti per adolescenti o al più universitari ai primi corsi. Adesso li richiedono i trentenni. Molti ultratrentenni. Ed è il vero problema.
3. La distorsione di una narrazione del lavoro sbagliata
La grande responsabilità di chi ha lanciato queste piattaforme è stata quella di spacciarle per aggregatrici di spare time jobs. E di costruire una narrazione che ha condotto i ragazzi a non considerarli per quello che sono: lavori da tempo libero. E quindi a puntarci più di quanto fosse lecito e forse sensato farlo.
Hanno travestito il ragazzo della pizza trasformandolo in rider ma non è cambiato nulla nel servizio. Né è possibile pensare che possa cambiare più di tanto.
4. L’errore di Foodora nel non dare alcuna garanzia
Chiariamoci: questo non significa che Foodora o qualsiasi altra società possa comportarsi come molti fattorini dicono abbia fatto in questi mesi e soprattutto negli ultimi giorni – aspettando sempre la versione dell’azienda. Non esiste. Ma come non potrebbe esistere in qualsiasi altro ambito: il lavoro si rispetta e si retribuisce con dignità. Quale esso sia.
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Il triplo carpiato per cui ti vendo una piattaforma dove fare dei lavoretti – ma intanto premio e valorizzo chi è più veloce, più rapido, più efficiente, fino a eliminare la retribuzione oraria per scatenare una gara alle consegne – e col tempo ti convinco a farlo diventare un lavoro vero e alla fine, quando mi chiedi la minima garanzia, torni alla versione iniziale, non è accettabile.
5. Una soluzione possibile: ascoltare le richieste
Per come si è evoluta finora crediamo una soluzione ci possa essere: dare ai fattorini un compenso orario e un rimborso mensile per le spese di manutenzione del mezzo e per il piano dati del telefono. Quello che chiedono. La ragione è semplice: l’attesa degli ordini da consegnare, quel vuoto che molti servizi stanno raccontando in questi giorni, non possono pagarla i lavoratori sotto forma di tempo.
L’azienda sta acquistando da loro anche la finestra oraria in cui si mettono a disposizione, non solo la corsa scatenata verso la pizzeria e poi al domicilio dell’acquirente.
6. Parlare di “elementi di subordinazione” è fuorviante
Tuttavia chi parla di presenza di elementi di subordinazione sbaglia. Sì, l’azienda “impartisce ordini, impone una divisa, monitora la prestazione, valuta la performance, premia i migliori, rimprovera gli inefficienti, chiude gli account” come si legge su Linkiesta.
Dimenticando che se un fattorino vuole, spegne tutto e arrivederci. In quel senso è autonomo: se lavora deve rispettare delle regole ma nessuno lo obbliga a lavorare. E certo questo non è un quadro tipico del rapporto di dipendenza.
7. Il caso Foodora fa emergere il problema vero del lavoro
La gig economy, lo ripetiamo, non ha inventato nulla: ha dato un altro nome al ginepraio di servizi di bassa o media qualifica, moltiplicando le possibilità e navigando sul crinale della legalità non più di quanto si facesse in precedenza, a quei mestieri su cui nessuno poteva pensare di costruirsi una vita vent’anni fa come oggi.
Certo in un Paese in cui capita che anche il tradizionale lavoro dipendente venga retribuito a voucher la faccenda è lontana dallo sciogliersi. Il punto è sempre lì: è il concetto di lavoro che in Italia è spesso frainteso. Il caso Foodora è solo l’ultimo di una serie di distorsioni. Farà una certa impressione (anche qui, mediatica) vedere il primo sciopero dei millennials, scoprire che è una generazione che sa anche protestare, reclamare i propri diritti. Ma anche questo è più clamore mediatico che altro.
Il problema non è che tipo di lavoro offre Foodora. Ma che chi protesta pensa che non ci siano alternative al lavorare da “dipendenti” per Foodora.