La major discografica lascia la piattaforma per lo streaming musicale. Il CEO Stephen Cooper: “Molto ottimisti sulla crescita futura di Spotify”. Eppure è la terza exit in pochi mesi
Una di quelle exit che fanno “rumore”: il colosso dell’industria musicale Warner Music Group cede il suo intero pacchetto obbligazionario di Spotify e se ne va con 504 milioni di dollari. L’operazione, giunta a compimento pochi giorni fa, era iniziata lo scorso maggio quando la major guidata da Stephen Cooper aveva messo sul mercato una prima tranche (il 75% per un valore di 400 milioni) delle azioni in suo possesso.
In fuga dallo streaming?
Un capitale che entrerà nelle tasche della società e, almeno in parte (circa 126 milioni), anche in quelle degli artisti sotto contratto. “Siamo stati tra i primi ad annunciare di voler condividere i proventi derivanti dai servizi di streaming e continueremo a seguire questa logica” ha spiegato l’amministrato delegato di Warner Music Group. “Inoltre, i profitti verranno divisi anche con le etichette partner per le quali curiamo la distribuzione sul mercato”.
Ma quella della Warner Music Group non è la prima operazione di exit che coinvolge la piattaforma di musica streaming Spotify. A inizio maggio Sony Music ha venduto il 50% dei suoi titoli ricavandone circa 750 milioni di dollari, seguita poche settimane più tardi da Merlin.
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Fuggi fuggi da Spotify, oppure una serie di intelligenti operazioni economiche dovute alla crescita del titolo in seguito alla quotazione in Borsa?
Competitor a confronto
Stephen Cooper è stato molto chiaro in merito: “Siamo una major della musica e non un soggetto con interessi a lungo termine in società quotate. Questa vendita non ha nulla a che fare con le nostre opinioni sul futuro di Spotify. E, anzi, siamo estremamente ottimisti sulla crescita dello streaming in abbonamento e pensiamo che abbia appena iniziato a manifestare il proprio potenziale su scala globale”.
Dargli torto è difficile, soprattutto ora che altre realtà come Amazon e YouTube hanno lanciato i loro servizi premium. L’ecommerce di Jeff Bezos negli Usa ha già 90 milioni di abbonati con numeri in continua crescita e due tipi di abbonamenti: quello ortodosso (Prime Music) e quello a prezzo scontato (Amazon Music Unlimited).
Ma forse sta proprio qui la differenza tra Spotify e i suoi competitor: la piattaforma fondata da Daniel Ek non riesce ad essere altrettanto redditizia. Stando all’ultimo report trimestrale, le perdite nette ammontano a 394 milioni di euro, più del doppio rispetto al 2017. A causa delle alte royalty pagate per i diritti d’autore, l’azienda agisce in perdita fin dalla sua nascita. E la situazione non è cambiata, nonostante gli enormi numeri degli abbonamenti: 180 milioni di account che accedono al servizio gratuitamente e 83 milioni di utenti con un abbonamento (+40% rispetto all’anno passato).
A ciò si aggiunge poi la spina nel fianco rappresentata da Apple Music, la rivale più accreditata in questo campo. Se nel resto del mondo Spotify, per tasso di crescita degli abbonati, non teme nessuno, negli Stati Uniti la situazione è ben diversa. Un altro dei motivi che potrebbero aver convinto la Warner Music Group a incassare e salutare prima che la situazione cambi ulteriormente.