Che l’Intelligenza artificiale sottragga posti di lavoro è possibile, secondo alcuni probabili e, in ogni caso, oggetto di una discussione planetaria. Un recente studio dell’Institute for Public Policy Research (IPPR), un ente di ricerca non profit inglese, frattanto, accende il faro su un’altra relazione pericolosa – probabilmente più pericolosa o, almeno, più probabilmente pericolosa – tra intelligenza artificiale e mondo del lavoro: il rischio che algoritmi e intelligenze artificiali possano trasformare il luogo di lavoro in una sorta di Panopticon nel quale nulla di quello che il lavoratore fa o non fa passa inosservato agli occhi del datore di lavoro e tutto è, drammaticamente, sistematicamente monitorato, tracciato e valutato.

Vale la pena dire subito, per evitare equivoci, che lo Studio riguarda la situazione in Gran Bretagna ma, per la verità, non c’è ragione per pensare che le cose a casa nostra stiano andando o, almeno, potrebbero andare diversamente anche se, forse, proprio la disciplina sulla protezione dei dati personali assieme allo Statuto dei lavoratori, stanno agendo o potrebbero agire da argine rispetto a eventuali eccessi.
Lo studio dell’IPPR non ci gira tanto attorno e mette nero su bianco che con l’alibi della produttività e della sicurezza sul luogo di lavoro le aziende stanno progressivamente implementando e facendo scendere in campo strumenti di sorveglianza dei lavoratori sempre più pervasivi.
Secondo il dottor Joe Atkinson, esperto in diritto del lavoro e autore del rapporto, queste tecnologie non solo violano sistematicamente il diritto alla privacy dei lavoratori, ma peggiorano anche le condizioni lavorative generali, aumentando stress, ansia e minando l’autonomia personale.
Leggi anche: Riconoscimento facciale in strada: a Londra sarà permanente. Ma con quali conseguenze?
Il sapere di essere sotto stretta sorveglianza sistematica, infatti, minerebbe la serenità dei lavoratori, ingenererebbe un clima di pericolosa diffidenza nella relazione tra datore di lavoro e lavoratori e pregiudicherebbe, ovviamente, la dignità dei lavoratori.
E, peraltro, secondo lo Studio, il ricorso a queste soluzioni di sorveglianza artificialmente intelligente sistematica sarebbe discriminatorio: più pervasivo per alcune categorie di lavoratori che per altri. I lavoratori di colore, ad esempio, almeno in UK, sarebbero sorvegliati più speciali che i bianchi. Uno scenario, quello che emerge dal rapporto, oggettivamente inquietante.
Nonostante l’alibi con il quale questo genere di soluzioni viene fatto entrare in azienda e presentato ai lavoratori – produttività e sicurezza in testa -, infatti, la sorveglianza digitale e diversamente intelligente sul lavoro rappresenta una minaccia reale e concreta ai diritti fondamentali dei lavoratori.
E se in Gran Bretagna, secondo il rapporto, sarebbe necessario correre ai ripari il più urgentemente possibile tra l’altro adottando nuove leggi meglio capaci di garantire la privacy, la dignità e la libertà dei lavoratori, forse, da noi, bisognerebbe affrontare la questione con analoga urgenza, da una parte chiedendosi se e quanto le regole che ci sono siano effettivamente rispettate e, dall’altra, verificando che siano sufficienti a scongiurare il rischio di abusi pericolosi come quelli registrati oltre Manica.
La sintesi della questione è sempre la stessa: il fine non giustifica i mezzi e esistono limiti invalicabili oltre i quali, neppure la nobiltà del fine – che si tratti di aumentare la produttività o rendere più sicuro il luogo di lavoro – consente di comprimere in maniera sproporzionata dignità e privacy dei lavoratori.
Qui il link allo Studio dell’IPPR per chi volesse leggerlo per esteso.