Se dovessi descrivere il gusto di Colgate in una parola, quale useresti? In un articolo datato 7 novembre 1966 dedicato al piano di sviluppo quinquennale di Colgate – Palmolive si fa accenno agli ambiziosi progetti di espansione del suo nuovo presidente George H. Lesch. Nel 1961 Lesch dichiarò che il suo obiettivo era quello di trasformare l’azienda in una «organizzazione da un miliardo di dollari» entro il 1966. Sebbene avesse ottenuto brillanti risultati rispetto al suo predecessore, Edward H. Little, questo ambizioso risultato non era ancora stato raggiunto nell’anno indicato da Lesch, il 1966.
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Nel 1947, per contrastare la rivale Procter & Gamble, furono lanciati sul mercato, con grande successo, il detergente Fab e una nuova linea per il bucato: Ajax. Ajax superò Mr. Clean di P&G nelle vendite. Con Little presidente, l’azienda aveva intrapreso un aggressivo programma di espansione estera diminuendo considerevolmente l’attività di ricerca e sviluppo di nuovi prodotti. Lesch era fiducioso che l’introduzione di un nuovo approccio, chiamato task force, ovvero nel mettere le migliori menti disponibili a risolvere un problema importante, avrebbe prodotto i risultati sperati.
Pur presentando un’immagine di successo all’esterno, i problemi erano evidenti internamente. Il presidente venne ribattezzato il George Washington Hill del sapone dal momento che in un primo momento concentrò tutti i suoi sforzi e il budget in una sola direzione. Una scelta che determinò un calo delle vendite del suo prodotto di punta. Il nuovo dentifricio Crest di Procter&Gamble spodesterà Colgate Dental Cream dalla prima posizione. Inoltre Lesch delegò la responsabilità a una manciata di alti dirigenti, trasformando gli altri dipendenti in meri esecutori, pagati poco e demotivati. La conseguenza più evidente fu un aumento del tasso di turnover.
Un prodotto da museo
Lesch cambiò strategia e arrivò a investire in un anno oltre 28 milioni di dollari dell’epoca in ricerca e sviluppo, al fine di lanciare nuovi prodotti sul mercato. Quasi il 10% delle vendite dell’azienda nel 1965 proveniva da prodotti che non esistevano prima del 1960: il bagno schiuma per bambini Soaky, lo spray per capelli Respond, gli asciugamani di stoffa monouso Handi-Wipes, i sacchetti di plastica Boggles. Ma c’era un altro settore che valeva 4,2 miliardi di dollari e che suscitava l’interesse dell’azienda.
Con il boom economico degli anni ’60, il mercato dei pasti pronti era in forte espansione. Grazie al microonde, i surgelati e i piatti pronti arrivano in tavola in pochi minuti. Come Giovanni Rana, anche Colgate – Palmolive, intuisce che i cambiamenti nel mercato del lavoro e nello stile di vita dei consumatori stavano modificando le esigenze delle consumatrici. E come Rana era intenzionata ad entrare in questo redditizio mercato sfruttando la forte fedeltà al suo marchio.
Lesch cercò nuovi modi per espandere la portata del marchio con il nuovo Dipartimento Colgate Kitchen Entrees. Tra i prodotti: una linea di antipasti di pollo essiccato e polpa di granchio, introdotta e rapidamente ritirata, e una patatina di mela chiamata Snapples, testata di tanto in tanto per un periodo di 2 anni. La conferma arriva anche dall’American Institute of Food Distribution che, in un articolo settimanale del 1966, dichiara che alcuni dei prodotti sono stati testati nel 1964, ma solo a Madison, nel Wisconsin, e sono stati ritirati un anno dopo.
Colgate ci riprova qualche tempo dopo con Beef Lasagna. La scatola nella foto è un mock up di progetto che trovate nel Museum of Failure, fondato da Samuel West, psicologo clinico e dottore di ricerca in psicologia organizzativa. Il museo espone una raccolta di fiaschi commerciali e le lasagne fanno parte della collezione dal 2017. Colgate si rifiutò di collaborare con il progetto del dottor West che ha dovuto ricreare la confezione originale delle lasagne. Il mock up delle lasagne è l’unico prodotto non originale in mostra nel suo museo.
È lo stesso West a confermare una parte della storia: «Non sono riuscito a trovare la confezione originale. Così un mio stagista ha realizzato una replica creativa». Ci confida anche che «quando il museo ha ricevuto l’attenzione dei media internazionali, l’avvocato di Colgate mi ha contattato e mi ha detto ripetuto per 5 volte la frase: non abbiamo alcun ricordo di una lasagna Colgate. Sebbene gli abbia chiesto di fornirmi informazioni relativi ad altri flop, non ho più saputo nulla da loro».
West ci tiene a sottolineare che la storia di Colgate Kitchen Entrees non sia una sua invenzione e che «proviene da due libri sui fallimenti del branding», sebbene Colgate abbia per un po’ confutato l’esistenza della loro linea di cucina per microonde.
Thomas Di Piazza, direttore delle comunicazioni aziendali, ha dichiarato al giornalista Harry Harris di aver scoperto, recentemente e per caso, l’esistenza del dipartimento Colgate Kitchen Entrees. Il progetto risaliva a un tempo in cui Colgate-Palmolive stava subendo un’intensa concorrenza da parte di P&G ed era necessario espandersi in altre categorie di prodotto come confermato dai giornali dell’epoca.
Il successo in un settore non garantisce il trionfo in un altro
Quando un’azienda sfrutta una marca già esistente per introdurre un nuovo prodotto si parla di brand extension. L’utilizzo di un marchio consolidato riduce il rischio per il consumatore, permette di diminuire le spese promozionali e di fare leva sulla fedeltà al marchio conosciuto. Ma come messo in evidenza da numerose ricerche scientifiche, questa strategia ha svantaggi che possono determinare il flop dei nuovi prodotti (il tasso di fallimento è vicino all’80%) o addirittura danneggiare il marchio originale.
Virgin Group fornisce un esempio di estensione del marchio fatte di luci e moltissime ombre. Colgate era un marchio con una identità definita e con una immagine ben riconducibile al settore dell’igiene orale e dei detergenti. L’introduzione di prodotti culinari potrebbe aver generato confusione nei consumatori, trovando difficile conciliare l’immagine di un dentifricio dal sapore mentolato a un piatto di pasta al forno o alla polpa di granchio.
Se vuoi lanciare un nuovo prodotto chiediti se è davvero il caso di pensare a una estensione di marca o di categoria o se è il caso di separare il marchio originale dall’immagine del tuo nuovo prodotto attraverso la creazione di un sottomarchio. L’azienda 3M è un esempio virtuoso di diversificazione senza dispersione, grazie alla creazione di multi marchi di successo. Pare che l’uso di un marchio diverso per la vendita degli snack abbia funzionato per la stessa Colgate, anche se la storia non ha avuto un lieto fine.
Pochi sanno che ci furono altri prodotti alimentari dalla stessa multinazionale che si rivelarono un flop: Puddin’Head e Bambeanos. Il primo prodotto, lanciato nel 1966, era un preparato istantaneo per pudding al cioccolato o fragola.
I secondi, lanciati nel 1975, erano snack di soia arrosto al gusto di formaggio, barbecue e cipolla e volevano essere un’alternativa salutare alle arachidi e ai popcorn.
Inizialmente le vendite andavano oltre le aspettative. Furono ritirati dal mercato un anno dopo perché avevano un effetto collaterale indesiderato. La decisione di interrompere la vendita degli snack si rivelerà costosa per Colgate. Il fornitore di soia, United Roasters (UR), li citò in giudizio per violazione del contratto (caso United Roasters, Inc. v. Colgate-Palmolive Co.). Il contratto prevedeva un periodo iniziale di test-marketing di 2 anni, seguito da 25 anni di vendite. UR avrebbe assunto il ruolo di appaltatore indipendente per la produzione degli snack.
Se Colgate avesse deciso di non venderli alla fine del periodo di test, lo avrebbe dovuto comunicare con un preavviso scritto di 30 giorni e i diritti sarebbero stati restituiti a UR. Dalla sentenza emerge che dal 1973 fino alla primavera del 1976, Colgate testò gli snack col nome Bambeanos a Syracuse, New York, e nell’area di Boston, per poi cessare la produzione nonostante la domanda fosse, secondo UR, «inaspettatamente e incoraggiantemente alta».
E, al contempo, sperimentò con successo un nuovo prodotto della stessa azienda chiamato Jimmy Crack Corn, uno snack al mais. Nonostante questi primi test positivi, Colgate decise, in malafede, di interrompere la sperimentazione senza comunicare la decisione a UR per almeno 6 mesi. Nel 1981 la società perse la causa. Colgate aveva violato i termini di contratto per la commercializzazione degli snack.
Le storie di errori e fallimenti vengono nascosti nel curriculum delle aziende. Alla mia domanda su quali sono le ragioni che spingono le aziende a negare i propri fallimenti, West risponde: «Buona domanda. La mia ipotesi è che si tratti di aziende molto convenzionali con un marchio globale che utilizzano il vecchio metodo del proteggere la reputazione del marchio. Forse funzionava prima dei social media, ma ora è terribilmente obsoleto. Sarebbe stato molto meglio per Colgate collaborare con il museo ed essere trasparente. Avrebbero ottenuto molto più rispetto e un impatto positivo».
Ci sono Paesi, più che altri, nei quali questo nascondimento è più evidente. La Germania è lo Stato in cui West dice di aver riscontrato maggiori difficoltà. «Il Paese ha una lunga storia di sviluppo e produzione di prodotti, ma è molto difficile convincere i tedeschi a discutere del fallimento in modo produttivo. Qualche anno fa abbiamo lanciato una campagna sui social media Fail Like A German per ottenere più idee per gli oggetti del museo. Ma la campagna è fallita. I tedeschi semplicemente non sono disposti ad accettare che il fallimento sia essenziale per l’innovazione».
Secondo due professori di innovazione che hanno contattato West, questa difficoltà di accettare il fallimento è il motivo per cui la Germania sta rimanendo indietro rispetto al resto dell’Europa in termini di innovazione. Negli ultimi tre anni il Paese ha registrato un boom di fallimenti, in particolare tra le grandi aziende. Le cause sono in parte strutturali e in parte contingenti al momento storico che viviamo. In ogni caso, discutere dei propri errori e condividere i propri passi falsi, favorisce l’individuazione delle cause e l’elaborazione di strategie, anche innovative, per evitare il ripetersi degli stessi errori, per consolidare una storia di successo e per affrontare le sfide future.
Le 3 regole d’oro
Sogna in grande, parti in piccolo. Ma soprattutto, fai il primo passo.
Fai in modo che collaboratori e consumatori siano gli eroi della tua storia.
Definisci chiaramente l’identità del tuo brand e sperimenta senza paura di sbagliare: l’innovazione non è perfezione ma adattamento e apprendimento.