Ragion d’essere, responsabilità sociale e storytelling. Così le aziende possono ridefinire il loro ruolo nel mondo. E perseguire onestamente i propri obiettivi
Nike isn’t trying to be “woke”. It’s trying to sell shoes. Nike non sta cercando di essere attivista, sta cercando di vendere scarpe. Titola così il Washington Post (potete leggere qui l’articolo) a proposito della campagna #JustDoIt promossa dalla famosa multinazionale americana, inserendosi così nel dibattitto che ha coinvolto i media, e prima ancora i consumatori, sul ruolo sociale dei brand.
La storia
Nike, partner tecnico della NFL, National Footbal League (ne firma tutte le divise), sceglie Colin Kaepernick come volto della sua nuova campagna e di fatto si fa portavoce di un messaggio altamente sociale “Believe in something. Even if it means sacrifing everything”. Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto. Proprio come Kaepernick, atleta di football americano che per protestare contro le ingiustizie subite dalla minoranza nera negli Stati Uniti, l’anno scorso si rifiutò di alzarsi in piedi durante l’inno nazionale statunitense, provocando le ire della NFL, che gli revocò il contratto. E di Trump, bersaglio nemmeno tanto velato del gesto.
A distanza di un anno Kaepernick è il volto della Nike. Non stupisce quindi che sia stato proprio The Donald uno dei primi a twittare contro la campagna #JustDoIt, facendo riferimento alla presa di posizione di una parte della rete che aveva iniziato a lanciare hashtag quali #BoycottNike, #JustDontDoIt, #NoNIke.
Just like the NFL, whose ratings have gone WAY DOWN, Nike is getting absolutely killed with anger and boycotts. I wonder if they had any idea that it would be this way? As far as the NFL is concerned, I just find it hard to watch, and always will, until they stand for the FLAG!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) September 5, 2018
Trump nel suo tweet si chiede se Nike abbia messo in conto questa reazione capace di “ucciderla”: “[…] Nike is getting absolutely killed with anger and boycotts”. Previsione tanto più sbagliata. Perché non solo Nike ha messo ampiamente in conto queste reazioni, ma ha registrato un bel + 31% nelle vendite. Insomma, l’Azienda americana dopo la campagna gode di ottima salute avendo scelto il suo target, i millennials, sensibili agli ideali e portatori di istanze sociali.
Il ruolo sociale delle multinazionali
Ma ecco che il Washington Post pone una questione di fondo e assume un punto di vista più disincantato nei confronti del “potere delle multinazionali”, il cui interesse nel promuovere valori e stili di vita non può essere sociale. Abbastanza scontato il riferimento a dove le scarpe Nike verrebbero fabbricate e con quale ricavo per i produttori locali. “Corporations don’t really care about the adjudication of these issues beyond their shareholders’ bottom line”. Le multinazionali non sono realmente interessate al giudizio su questi temi, al di là del profitto degli azionisti. Un punto di vista con cui bisogna fare i conti, che non può e non deve derubricare il potere narrativo dei brand e la loro possibilità di attirare l’attenzione su temi sociali ad una mera attività di marketing. Ma che impone assoluta coerenza. E una profonda riflessione.
Sono i cittadini infatti a chiedere alle multinazionali di assumere un ruolo sociale, pur consapevoli dei loro conflitti di interessi. Secondo la Havas Prosumer Research 2013 e quella altrettanto bella del 2015, i cittadini si aspettano che tanto più le multinazionali sono potenti, tanto più contribuiscano con i loro mezzi a migliorare la società. Una tendenza confermata da Edelman Trust Barometer 2016, secondo cui l’85% degli italiani è convinto che le aziende siano in grado di intraprendere azioni specifiche che aumentino i propri profitti e allo stesso tempo migliorino le condizioni sociali ed economiche delle società in cui operano.
Un punto di vista ben sintetizzato da Richard Branson, fondatore del gruppo Virgin, che a proposito del cambiamento climatico diceva: “We are citizens of the world. We cannot just leave things to the social sector and to the politicians to speak up. We have as much clout as they, if not more than some of them, and we have the responsibility to speak out. And it makes good business sense”. Non possiamo lasciare che siano solo il Terzo Settore o i politici a parlare. Abbiamo tanta influenza quanto loro, se non di più, abbiamo la responsabilità di parlare. E ha senso anche sotto il profilo economico.
Insomma, non ci può e non ci deve essere contraddizione tra gli obiettivi di business e la promozione di temi sociali e istanze istituzionali. Purché ci sia la volontà di essere coerenti. Quindi ad esempio ci si aspetterebbe che Nike, sollecitata in questo senso, prendesse una posizione forte anche sul tema della produzione e del costo del lavoro nei Paesi in via di sviluppo. “JustDoIt, even if it means to sacrifice everything”, appunto.
Opportunità e responsabilità
Le organizzazioni hanno quindi un’enorme opportunità, e insieme una grande responsabilità: ridefinire il loro purpose, la loro ragione di esistere e contribuire ad un ecosistema sano e redditizio che contempli clienti, fornitori, dipendenti e la società in generale, proprio in virtù dei loro mezzi. Questo è quello che oggi chiamiamo anche “valore condiviso”. E non è solo un elemento di Corporate Responsibility o di narrazione. E’ soprattutto un fatto organizzativo. Uno dei principi chiave dell’agility, l’insieme delle nuove metodologie che stanno ispirando la trasformazione organizzativa, è proprio il concetto di “purpose”, che in italiano possiamo tradurre appunto come “la ragion d’essere” ovvero il fine ultimo dell’esistenza di un team o di un’azienda.
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Perché il mio team esiste? Qual è la ragion d’essere dell’azienda per cui lavoro o di cui sono azionista? Un esercizio importante e utile che definisce una bussola per allineare l’organizzazione del lavoro con le competenze delle persone, orientare il processo decisionale. E che poi diventa narrazione ispirando anche scelte importanti di comunicazione. Una sorta di rivoluzione copernicana. Perché la ragion d’essere di un’azienda viene prima della narrazione e ne diventa garanzia di autenticità incidendo anche sui comportamenti e sull’insieme delle politiche aziendali. Incluso il rapporto con gli azionisti, per tornare al tema posto dal Washington Post. L’azienda del futuro dovrà essere capace di definire la propria ragion d’esistere coinvolgendo anche gli azionisti, insieme agli altri stakeholder, nella sua definizione e ambire a giocare davvero un ruolo sociale nel legittimo perseguimento dei propri obiettivi. #JustDoIt
Appunti per iniziare
Recentemente ho provato a tracciare un diario di bordo per intraprendere il percorso della trasformazione organizzativa, oggi provo a definire una rotta per le aziende che vogliono diventare davvero “passionarie”, come le ha definite Giampaolo Colletti nell’articolo pubblicato sul Sole 24 Ore del 7 settembre (sul caso Nike leggete anche la sua intervista a Paolo Iabichino).
Leader ma anche eroi
Se la trasformazione organizzativa ha bisogno di leader, la vocazione sociale ha bisogno di eroi. E il mondo pure.
Ragion d’essere, che bussola
Qual è la ragion d’essere della nostra organizzazione? Definiamolo insieme a colleghi, stakeholder, clienti. E azionisti.
Storytelling, e story-being
Il nostro cervello memorizza le storie. Diamo alla nostra ragion d’essere una struttura narrativa. A patto di essere quella storia.
Trasparenza, non negoziabile
Oggi la trasparenza è il nuovo nome per dire oggettività. E non è più un’opzione. Perseguiamola.
E coerenza, questa sconosciuta
Fare ciò che si dice e dire ciò che si fa. Ovvero essere ciò che raccontiamo. Sempre.
Business is King
Aziende e multinazionali perseguono legittimamente I propri obiettivi di business. Ma possono agire da cittadini del mondo. E interpretarlo.
People is Queen
Sono le persone a definire i valori di una società, e non viceversa.