Dal Piano Nazionale Scuola Digitale, che tra poco compirà un anno, alle tecnologie per l’e-learning, la programmazione e i giovani maker. Di cosa parliamo quando parliamo di scuola digitale, il futuro dell’apprendimento
La scuola sta cambiando. L’avvento delle tecnologie digitali ha aperto scenari estremamente rilevanti nel mondo dell’apprendimento. L’open source ha reso disponibile il sapere a tutti, l’e-learning ha abbattuto ogni confine geografico; nel 2016, per la prima volta, gli atenei pubblici italiani hanno messo su una piattaforma online i loro corsi, e li hanno aperti a tutti. La conoscenza, che nell’era pre-digitale veniva tramandata in modo verticale, appoggiandosi a contenuti strettamente testuali, ora può essere condivisa in maniera orizzontale, sfruttando la multimedialità e le possibilità dell’apprendimento a distanza.
A ottobre 2016 il Piano Nazionale Scuola Digitale compirà un anno. Il Piano è il documento della legge 107/2015 che, in 35 azioni, organizza la digitalizzazione della scuola puntando 1 miliardo di euro sull’innovazione. Oltre a quello di introdurre le tecnologie nelle scuole, l’obiettivo del Piano è diffondere l’idea di istruzione permanente, “life-long learning”, ed estendere il concetto di scuola dal luogo fisico a spazi di apprendimento virtuali. Per accompagnare la trasformazione digitale degli istituti, nell’ultimo anno nelle scuole si è introdotta la figura dell’animatore digitale, e si è cominciato a pensare a nuovi spazi per accogliere la didattica laboratoriale, per tenere gli istituti aperti anche oltre l’orario scolastico e per organizzare percorsi di inserimento nel mondo del lavoro. Il Piano cerca di mandare avanti il progetto, cominciato nel 2007, per portare la scuola italiana al passo con i tempi. La nostra scuola è ancora troppo legata a un modello di istruzione novecentesco, appropriato più ad una società industriale che a una società “in Rete” nella definizione di Manuel Castells (“La nascita della società in rete”, 2008): una comunità i cui cittadini sono responsabili in prima persona della creazione e diffusione delle informazioni nel web.
Le tecnologie digitali stanno cambiando radicalmente il modo in cui le nuove generazioni apprendono, e il futuro della scuola non può che essere legato alle opportunità offerte dalla Rete.
Smaterializzazione e nuovi modelli pedagogici
Tradizionalmente la lezione è legata a un luogo fisico, a un tempo determinato e alla disponibilità di un insegnante. Con le tecnologie digitali tutti questi paletti vengono meno: gli insegnanti possono tenere lezioni a classi di studenti dislocati in diversi luoghi, collegati in Rete; le lezioni possono essere registrate e seguite a qualsiasi ora, possono essere caricate su piattaforme open source e messe a disposizione di tutti. La smaterializzazione dei contenuti ha spezzato quel sistema che relegava le informazioni, e dunque il potere, a chi gestiva la produzione materiale di contenuti (libri e giornali), e lasciava il sapere a chi poteva permettersi materialmente quei contenuti. Alla digitalizzazione dei testi, si è aggiunta, con il web 2.0, la possibilità di far partecipare l’utente al processo di creazione e condivisione dei contenuti, con gli user-generated content, di tutti i tipi: dal testo al video, dalla foto al curriculo scolastico di un insegnante. Il passaggio dagli atomi ai bit e l’introduzione di piattaforme che permettono all’utente di realizzare e diffondere contenuti propri, sono i due elementi che, secondo Castells, sono alla base delle “network societies”, cioè delle società legate alla Rete.
Finora, in Italia, abbiamo avuto un modello scolastico cucito sulle esigenze della società industriale. Con l’avvento delle società in Rete questo modello richiede un aggiornamento.
Gli insegnanti devono sperimentare nuovi modelli didattici, che tengano conto delle competenze richieste da una società digitale. Il World Economic Forum nel report del 2016 “New Vision for Education: Fostering Social and Emotional Learning Through Technology” elenca le competenze necessarie per trovare lavoro in una economia legata all’innovazione e alla tecnologia. Vengono chiamate “skill del ventunesimo secolo”, cioè capacità che qualsiasi sistema educativo al passo con i tempi deve garantire oggi. Accanto ad alcune abilità “tradizionali” come la capacità di leggere, usare i numeri, comprendere e contestualizzare informazioni, ci sono alcune competenze “nuove” che si dovrebbero apprendere tra i banchi di scuola: il problem solving, cioè la capacità di analizzare le situazioni e trovare delle risposte adeguate, la creatività, l’abilità di lavorare in gruppo, la flessibilità nel cambiare piani e obiettivi, la capacità di guidare e ispirare gli altri.
Proprio rispondere a questo bisogno di didattica nuova, e offrire un’istruzione a quelli che saranno i lavoratori di domani è l’obiettivo di H-Campus, un esperimento di “scuola del futuro” nato nella campagna veneta, portato avanti dall’imprenditore Riccardo Donandon e dall’ex rettore dell’Università Ca’ Foscari di Venezia Carlo Carraro. «La nostra scuola punta sull’apprendimento per competenze, sulla tecnologia ma soprattutto sulla contaminazione che avviene tenendo gli studenti a contatto con il mondo stimolante delle startup» ha detto Carraro, riferendosi alla vicinanza del nuovo campus (che ospita studenti dai 3 ai 26 anni) all’acceleratore di startup H-Farm (qui il nostro viaggio dentro l’H-Campus).
E-learning e Open source
Le risorse didattiche aperte, chiamate OER, cioè open education resource hanno reso possibile la diffusione tra gli insegnanti di materiali e strumenti: moduli, software liberi per la creazione di contenuti, tutorial. Queste risorse sono pensate per gli insegnanti ancor prima che per gli studenti. Un esempio di piattaforma su cui si possono condividere, ad esempio, interi programmi scolastici è il progetto Curriculum Mapping avviato dal Centro Studi ImparaDigitale e dalla Fondazione TIM. Una piattaforma dove i docenti di scuole diverse possono condividere il proprio programma e “mapparlo”, ovvero rendere trasparenti obiettivi, competenze di riferimento e ambiti di applicazione. Il Curriculum Mapping è uno strumento pensato proprio per facilitare un tipo di didattica per competenze che Dianora Bardi, presidente di ImparaDigitale, ha spiegato bene nel suo ebook “La classe scomposta”. Bardi descrive il modello didattico messo in atto nel liceo Lussana di Bergamo a partire dal 2010, basato su una didattica che si avvale dell’uso di supporti digitali come i tablet, e strutturata per competenze, a partire dalle 8 competenze chiave per l’apprendimento permanente descritte dalla Raccomandazione del Parlamento Europeo del 2006 (comunicazione nella madrelingua, comunicazione in lingue straniere, competenza matematica, competenza digitale, imparare ad imparare, competenze sociali e civiche, senso di iniziativa e di imprenditorialità, consapevolezza ed espressione culturali). «In un mondo in cui tutti hanno facilmente accesso all’informazione – scrive Bardi – addirittura a un eccesso di informazioni, mediante le tecnologie, diventa fondamentale e ineludibile “insegnare” non più e non solo per trasferire saperi, per cui spesso basta un clic, bensì per formare uno “studente competente”, avviato a essere un futuro cittadino riflessivo e responsabile». Lo studente competente è colui che riesce ad applicare ciò che ha appreso nel momento in cui quell’apprendimento gli serve: in altre parole che riesce ad applicare la conoscenza in tutti gli ambiti della vita. L’insegnamento per competenze si sposa con ambienti ripensati: al Lussana, infatti, è stata realizzata la cosiddetta “aula-casa”. Spazi allestiti come se fossero una dimora, dove gli studenti possono muoversi e interagire con libertà e dove si può attuare una didattica laboratoriale.
Didattica laboratoriale e fablab
Il Piano Nazionale Scuola Digitale per la prima volta ha previsto nelle sue azioni finanziamenti cospicui per la didattica “laboratoriale”, cioè per implementare quegli spazi nella scuola dedicati alla sperimentazione e all’artigianato digitale. L’Indire, Istituto d’innovazione e ricerca educativa del Miur, ha avviato nel 2014 il progetto Maker@Scuola per monitorare le scuole che cercano di portare il movimento maker nelle aule. Per introdurre le attività dei fablab negli edifici scolastici, il Miur ha promosso la creazione degli atelier creativi: spazi innovativi nelle scuole elementari e medie “dove sviluppare il punto d’incontro tra manualità, artigianato, creatività e tecnologie”. Saranno 1860 gli istituti che si aggiudicheranno i finanziamenti che ammontano, in tutto, a 28 milioni di euro (15 mila euro a scuola di media). Altri 5 milioni sono stati stanziati per realizzare biblioteche innovative e digitalizzate, mentre lo scorso maggio il ministero ha lanciato un bando da 350 milioni di euro per realizzare 52 scuole innovative in tutta Italia.
Lezioni capovolte
Le tecnologie ribaltano la lezione. La classe capovolta, lo dice il nome, è la lezione che rovescia l’approccio della classica lezione frontale in cui l’insegnante spiega le nozioni in classe e gli studenti fanno i compiti a casa. La flipped classroom è l’esatto opposto: le lezioni si seguono a casa, attraverso video tutorial su dispositivi digitali, ognuno con i propri tempi (la lezione si può mandare indietro e riascoltare). I “compiti” si fanno in classe, con l’insegnante. Qui, però, ai classici esercizi vengono affiancate anche attività pratiche come esercitazioni, casi studio e laboratori, lavori di gruppo, che non sarebbero possibili con il modello della lezione frontale. Il modello della flipped classroom arriva dagli Usa. I primi corsi riconosciuti in Italia dal Ministero dell’Istruzione risalgono al 2014, ideati dall’associazione Flipnet. Anche l’Indire inizia a mappare le classi capovolte. Oggi se ne contano oltre 400. La lezione capovolta è una risposta alla lezione tradizionale, verticale, uguale per tutti, con luoghi e tempi ben definiti. Può essere fruita da studenti di età e bisogni diversi e promuove un cambio di mentalità: lo studente non è mai solo mentre mette in pratica ciò che ha imparato. Nel momento dei compiti, in cui lo studente si confronta con gli esercizi, è sempre accompagnato da qualcuno che può aiutarlo in qualsiasi momento e che può coinvolgerlo in attività pratiche e divertenti. L’insegnante diventa una guida, il rapporto gerarchico – e spesso intimidatorio – viene meno. Gli strumenti a disposizione degli insegnanti per guidare gli studenti sono tantissimi. Con Telegram, l’app di messaggistica, ad esempio, si possono creare dei “bot”, cioè dei programmi, con i quali gli studenti possono scoprire i testi classici. Al liceo Pepe di Ostuni, ad esempio, la professoressa Paola Lisimberti ha usato il bot sulla Divina Commedia per accompagnare i suoi studenti dentro l’opera e mostrargliela sotto una luce nuova. «A chi dice che non era necessaria una ulteriore edizione digitale della Commedia, rispondo che questo, al contrario, è il segno dell’eternità della parola dantesca che ora, democraticamente, possiamo leggere e rileggere su quello strumento che tutti abbiamo in tasca e nel modo consueto (la chat) che conosciamo e pratichiamo. Naturalmente, quello che mi interessa è il coinvolgimento dei ragazzi e sperimentare in classe i vantaggi e le criticità dell’uso dello smartphone per seguire la lettura del testo» ha detto Lisimberti.
Wiki e MOOC
Gli insegnanti capovolti usano piattaforme per permettono agevolmente la creazione e condivisione di video-lezioni e contenuti. Le più conosciute all’estero sono Blendspace e Edmondo, mentre in Italia è cresciuta enormemente Oilproject, la startup fondata nel 2012 da Marco De Rossi, classe 1990. Oilproject è diventata la scuola online più grande d’Italia, con quasi 2 milioni di accessi mensili: studenti che, gratuitamente, studiano su video ed esercizi disponibili sul sito. Da Oilproject è nata, a maggio 2016, WeSchool una nuova piattaforma per lezioni “collaborative” che introduce il fattore gioco in aula: «Con WeSchool i professori possono integrare in una sola piattaforma tutti gli strumenti e i contenuti che vogliono, costruendo una lezione coinvolgente ed estremamente interessante per gli studenti – dice De Rossi – perché esercizi e verifiche sono presentati come quiz».
Il sapere sul web è molto più accessibile. L’enciclopedia, che una volta era un bene di lusso, oggi non solo è disponibile online in qualsiasi momento, ma è anche “wiki”, cioè modificabile dagli stessi utenti, che possono scrivere e migliorare le voci. Wikipedia, l’enciclopedia scritta dagli utenti, ha aumentato la disponibilità di nozioni e informazioni ed ha avuto anche l’effetto di spingere altre enciclopedie a fare lo stesso: sul sito dell’Enciclopedia Italiana Treccani, ad esempio, ci sono oltre un milione di lemmi consultabili gratuitamente, mentre l’Enciclopedia Britannica ha interrotto le pubblicazioni dei suoi volumi cartacei nel 2010, per concentrarsi solo sull’online.
Non solo le enciclopedie, ma anche le Università hanno aperto i loro corsi online. Con i Mooc (Massive Open Online Course) si possono seguire liberamente le lezioni di alcune delle più prestigiose università del mondo: gli atenei si raccolgono in piattaforme dove si può trovareveramente qualsiasi materia. Su coursera.org, ad esempio, ci sono corsi dall’Università di Stanford, del Michigan o di San Diego. Su Open Education Database si possono trovare i corsi di matematica caricati direttamente del prestigioso MIT di Boston. Per quanto riguarda l’Italia, è nato ad aprile 2016 EduOpen.eu, la piattaforma avviata da 14 atenei pubblici che offre corsi formativi di alta qualità tenuti da docenti universitari e prodotti direttamente dalle università. Il portale è stato realizzato su piattaforma open source grazie a un finanziamento del Ministero dell’Istruzione di 100 mila euro e alla collaborazione con i consorzi Cineca e Garr.
Coding e Coderdojo
Nel 2014 il Miur ha avviato il progetto “Programma il futuro” per inserire tra le materie scolastiche anche ore dedicate all’insegnamento della programmazione e allo sviluppo del pensiero computazionale. Nel primo anno del progetto sono state svolte 1 milione e 600 mila ore di programmazione, e l’Italia ha raggiunto il secondo posto al mondo, dopo gli Stati Uniti, per diffusione di coding tra i banchi. Parallelamente a questo si è allargato il movimento dei Coderdojo, i club dove docenti volontari insegnano fuori orario il coding ai bambini più piccoli. Nato nel 2011 in Irlanda, il nome è composto da “coder”, cioè chi scrive programmi, e “dojo”, termine giapponese che indica il luogo dove ci si allena per apprendere le arti marziali. Il Coderdojo è dunque una specie di palestra per la programmazione.
Il movimento è diventato un fenomeno globale: secondo la Fondazione Coderdojo, ci sono oltre 1000 dojo in 63 paesi del mondo, 145 solo in Italia.
Ogni Coderdojo rispetta l’etica originaria: l’incontro deve essere gratuito e privo di pubblicità. Ma come si insegna la programmazione a un bambino? In realtà si può fare in molti modi. Il primo è usare dei software pensati apposta per i bambini. Il più comune è Scratch, creato da Mitch Resnick che dirige il Lifelong Kindergarten group al MIT Media Lab di Boston. Un software che ha preso molto piede è Minecraft, un gioco che permette di “costruire mondi” spostando blocchi. Microsoft ha acquisito Minecraft e ne ha divulgato una versione fatta apposta per le scuole, Minecraft Education Edition, che arriverà in Italia a novembre 2016 nella sua versione completa. «Con Minecraft a scuola i bambini andrebbero a scuola anche la domenica» sostiene Marco Vigelini, tecnico informatico che organizza il Coderdojo Allumiere e che si occupa anche di formazione per insegnanti. «Abbiamo introdotto Minecraft a scuola anche perché è universalmente riconosciuto come un gioco inclusivo di genere, riuscendo ad entusiasmare e coinvolgere allo stesso modo maschietti e (soprattutto) femminucce. – ha raccontato Vigelini a Startupitalia – Minecraft è un gioco altamente creativo: stimola infatti quella parte del cervello a cui piace costruire le cose e stimola quelle funzionalità intellettive che vengono messe in gioco quando si ha in mano una scatola di mattoncini colorati e la si apre».
Google ha raccolto tutte le sue risorse per insegnare il coding sulla piattaforma Computer Science Edu, accessibile gratuitamente. Il pensiero computazionale si insegna anche attraverso giocattoli intelligenti come Cubetto, creato dalla startup italiana basata a Londra Primo Toys, che ha raggiunto il record di oltre un milione di dollari raccolti su Kickstarter diventando il robot edu-tech più finanziato nella storia del crowdfunding.
A questi elementi se ne potrebbero aggiungere molti altri. Si potrebbe parlare delle olimpiadi di robotica che spingono gli adolescenti a creare dal nulla automi che camminano, danzano e giocano a calcio. Si potrebbe parlare delle gite scolastiche finanziate sulle piattaforme di crowdfunding, delle applicazioni della realtà virtuale a materie come le scienze o la storia. Le opportunità offerte all’apprendimento dalle tecnologie sono enormi. Anche se il cambiamento potrà sembrare lento, in realtà la scuola si sta rinnovando profondamente. La sfida che ogni trasformazione porta con sé è un adeguamento di mentalità. Gli insegnanti dovranno aggiornare la propria formazione: molti saranno scettici, molti altri ne saranno entusiasti. Ad ogni modo il cambiamento non è più rimandabile. Il digitale costituisce un tesoro per le nuove generazioni: e nessun insegnante vorrebbe mai negarlo ai propri alunni.