Mangiamo e beviamo plastica. Ne produciamo sempre di più e non sappiamo come smaltirla. Ma resta una parte importante, se non fondamentale, della nostra economia
La giornata mondiale della Terra, quest’anno, si concentra sul problema dell’inquinamento derivante dai prodotti plastici. Ormai gli esperti, infatti, concordano che si sia giunti vicini al punto di non ritorno, soprattutto per quanto riguarda la presenza della plastica nei nostri mari. Secondo un recente studio pubblicato su Nature dall’Ocean Cleanup Foundation, solo nell’oceano Pacifico galleggerebbero 80mila tonnellate di materiali plastici non biodegradabili, capaci di coprire un’area pari a 1,6 milioni di chilometri quadrati (oltre due volte la città di New York).
L’isola “rifiutata”
E poi c’è l’isola dei rifiuti, che galleggia tra le Hawaii e la California. È la testimonianza… plastica di ciò che l’inquinamento sta causando al delicato ecosistema marino. In realtà, come riporta lo studio dell’Ocean Cleanup Foundation, la situazione sarebbe 16 volte più grave di quanto stimato fino a oggi.
La Great Pacific Garbage Patch ha destato l’interesse dei media, oggi ha persino un sindaco, una sua valuta, francobolli dedicati e passaporto, ovviamente tutto fasullo, e questo è stato fatto dagli attivisti per far capire alla gente che si tratta di un cumulo di immondizia galleggiante enorme, grande come uno Stato, appunto. Ma la novità è che non è più sola: le correnti ne stanno compattando di analoghe un po’ ovunque, Mediterraneo incluso dove ne sarebbero state avvistate almeno tre. Tutti noi abbiamo ancora vivide nella memoria le immagini della carcassa di balena ritrovata sulle coste spagnole con oltre 30 chili di plastica nello stomaco che la hanno soffocata.
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La plastica nel piatto
Ma ciò che preoccupa di più è il problema delle microplastiche. Perché le bottiglie e i sacchetti che galleggiano sul pelo dell’acqua sono visibili e ci fanno subito capire che è meglio non balneare nelle immediate vicinanze, le microplastiche invece non hanno quasi consistenza e, soprattutto, finiscono ingerite da pesci di tutte le dimensioni.
Secondo Greenpace, sono almeno 170 gli organismi marini (vertebrati e invertebrati) ripieni di plastica. Un recente studio condotto su 121 esemplari di pesci del Mediterraneo centrale, tra cui specie 3 commerciali come il pesce spada, il tonno rosso e il tonno alalunga, ha identificato la presenza di frammenti di plastica nel 18,2 per cento dei campioni analizzati.
Analogamente, studi condotti su 26 specie di pesci delle coste atlantiche portoghesi hanno evidenziato la presenza di microplastiche nel 19,8 per cento dei campioni di pesci analizzati: i quantitativi più elevati sono stati ritrovati nel lanzardo (Scomber japonicus) una specie simile allo sgombro e presente sul mercato italiano. Un altro studio sugli scampi (Nephropos norvegicus) ha dimostrato la presenza di frammenti di plastica nello stomaco dell’83 per cento degli esemplari raccolti lungo le coste britanniche.
Anche se al momento è difficile definire i possibili rischi per la salute umana, sono stati identificati una serie di problemi (ancora oggetto d’indagine) che potrebbero derivare dall’ingestione di microplastiche tramite prodotti ittici contaminati: dalla diretta interazione tra le microplastiche e i nostri tessuti e cellule, fino a un ruolo come fonte aggiuntiva di esposizione a sostanze tossiche. Considerando che molti degli additivi e contaminanti associati alle microplastiche sono pericolosi per la salute umana e per l’ambiente, questo aspetto rimane una delle principali aree su cui concentrare le ricerche in futuro, sostiene Greenpace.
Sono sempre di più le aziende che provano a sensibilizzare i consumatori sul tema. Un frame della campagna di North Sales
Chi inquina di più?
Come ci arrivano le microplastiche in mare? In moltissimi modi, dai liquami industriali a quelli fognari, che trasportano al largo l’acqua di scarico delle lavatrici (responsabili di sminuzzare i tessuti dei nostri capi sintetici) e dei lavandini. Nessun filtro oggi riesce a trattenere particelle così piccole eppure tanto pericolose, inquinanti e velenose. Parlando di grandi inquinanti, la produzione mondiale è in continua crescita ed è arrivata due anni fa a 335 milioni di tonnellate contro le 322 del 2014, con un aumento del 4%.
“Sewage Surfer”, lo scatto di Justin Hoffman al Wildlife Photographer of the Year 2017
L’anno zero della plastica è stato il 1990 quando la sua produzione ha superato quella di acciaio, facendoci di fatto entrare nell’età delle materie plastiche. Attualmente, la Cina produce la maggior quantità di materiali plastici col 29%, seguono l’Europa con il 19 e il Nord America con il 18.
Se la plastica oggi è tanto diffusa, lo dobbiamo anche a un italiano, Giulio Natta che nel 1954 inventa il “moplen”, il materiale usato ancora oggi per contenitori di tutti i tipi, anche alimentari. Per questa invenzione, nel 1963 Natta ha ricevuto il premio Nobel. Chi ha qualche anno sulle spalle certo ricorderà le pubblicità di Gino Bramieri all’interno del Carosello della Rai. Il comico milanese è stato per anni il volto di Moplen. Questo peraltro ci deve ricordare che la plastica, che oggi sta subendo una vera e propria demonizzazione, in realtà è un prodotto non solo utile se non cruciale, ma anche vitale per la nostra economia. Solo in Europa, secondo i dati di PlasticEurope, la plastica genera occupazione per 1,45 milioni di persone in 62 mila imprese, capaci di fatturare ben 330 miliardi di euro.
È dunque sbagliato demonizzare la plastica in sé. Piuttosto bisognerebbe interrogarsi sull’uso che ne facciamo. La plastica nasce per rendere economici prodotti di lunga durata: è un materiale potenzialmente eterno, e tutti i problemi legati all’inquinamento riguardano proprio la sua non-biodegradabilità. Invece negli anni la abbiamo impiegata con maggiore frequenza per beni usa e getta. E questo, unito alla mancata cultura del riciclo, ha prodotto il mare di spazzatura nel quale stiamo velocemente affogando.