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Sono declinabili sia come vincolo tra soci (o meglio, ex-soci), sia nell’ambito dei rapporti di lavoro subordinato. Possono limitare il rischio di “travaso” di informazioni vitali per la propria startup
L’insieme di competenze, know how, contatti, esperienze e c.d. tour de main sono tra gli asset più importanti di una startup, fin dalle fasi iniziali, e vanno pertanto protetti adeguatamente, con documenti solidi e, al contempo, agili, ma soprattutto con le corrette prassi e procedure. Un valido strumento volto a preservare il know-how aziendale sono i patti di non concorrenza (“PNC”).
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Cosa sono i patti di non concorrenza
I patti di non concorrenza sono declinabili sia come vincolo tra soci (o meglio, ex-soci) sia nell’ambito dei rapporti di lavoro subordinato, come pattuizioni destinate a operare successivamente allo scioglimento del vincolo e ad evitare la dispersione e/o lo sfruttamento a vantaggio di soggetti concorrenti, di quel pacchetto di competenze, know-how, contatti, tour de main, acquisito o sviluppato dall’ex socio o ex-dipendente nell’ambito del precedente rapporto, indipendentemente dalla natura di per sé confidenziale o meno delle informazioni e dunque dalla proteggibilità o meno delle stesse con un non-disclosure agreement (NDA).
L’esistenza di validi ed efficaci patti di non concorrenza può limitare in radice il rischio di “travaso” di informazioni, costituenti spesso un vero e proprio asset della startup, costituendo un vincolo contrattuale obbligatorio più facilmente azionabile rispetto alle previsioni di tutela della riservatezza derivanti da NDA.
Il PNC a carico dei lavoratori subordinati
Più delicata rispetto all’ipotesi di obbligo di non concorrenza per il socio, è quella – altrettanto comune ed essenziale – del PNC a carico del dipendente.
La limitazione dell’attività del dipendente successivamente alla cessazione del rapporto richiede uno specifico accordo scritto che, oltre ai limiti di carattere di tempo (5 anni per i dirigenti e 3 anni per gli altri dipendenti), oggetto (attività in concorrenza con quella dell’imprenditore , non necessariamente con riferimento alle stesse mansioni svolte presso il precedente datore di lavoro), territorio (la cui valutazione di congruità dipende in larga misura dalla tipologia di oggetto del vincolo), deve prevedere anche una adeguata remunerazione del vincolo, pena la nullità ed inefficacia dello stesso.
Quest’ultimo aspetto merita particolare attenzione, poiché è proprio quello messo in discussione nella maggior parte dei casi per contestare la tenuta e validità del patto.
Quantificare il corrispettivo
La legge non stabilisce come si quantifichi tale corrispettivo, né la modalità e/o forma dello stesso, limitandosi a prevedere che sia congruo, cioè proporzionato alla limitazione imposta al dipendente. La giurisprudenza ha quindi elaborato nel tempo alcuni principi che possono ritenersi ormai consolidati:
- l’ammontare del corrispettivo deve poter essere valutato dal dipendente fin dal momento della stipulazione del patto (prima, durante o dopo la cessazione del rapporto), sia tale ammontare determinato in quota fissa o in percentuale rispetto alla retribuzione annua. È dunque nullo la previsione di una certa somma/mese, poiché, in tal caso, l’entità del corrispettivo (e la sua congruità) dipenderebbe dalla durata del rapporto di lavoro e non sarebbe preliminarmente valutabile dal dipendente.
- l’adeguatezza del corrispettivo deve essere valutata in base al caso concreto. Non esiste un criterio universalmente applicabile per la quantificazione del corrispettivo, ma alcune recenti pronunce di tribunale hanno ritenuto congruo un corrispettivo tra il 15% ed il 35% dell’ultima retribuzione annua in caso di PNC molto circoscritto sia per settori specifici che per territorio, e un importo non inferiore al 60% per ambiti di attività e territoriali più estesi.
- l’erogazione del corrispettivo può avvenire anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, in un’unica soluzione o a rate, anche subordinatamente al corretto adempimento da parte dell’ex dipendente.
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Più, in generale, e cioè valutando non solo l’aspetto economico ma anche i limiti oggettivi e territoriali del vincolo, la giurisprudenza è uniforme nel ritenere nullo il patto che comprometta ogni potenzialità reddituale da parte del lavoratore, quale che sia il compenso, non essendo valida la rinuncia a ogni possibilità d’impiego.
Affinché, in concreto, i patti di non concorrenza siano il più efficace possibile, è bene che le limitazioni non riguardino solo l’attività in forma subordinata, ma anche quella resa come consulente, socio, consigliere di amministrazione, agente o anche per interposta persona, sia tale attività gratuita o a titolo oneroso, occasionale o continuativa.
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Inoltre, come alternativa o in aggiunta all’indicazione dei limiti territoriali del vincolo, è ammessa (e, ove sia praticamente fattibile, addirittura consigliabile) l’indicazione della denominazione di imprese concorrenti. È poi possibile, ove gli equilibri contrattuali lo consentano, prevedere l’applicazione di una penale in caso di violazione del patto. Infine, è opportuno tenere in considerazione che, pur essendo il PNC un normale vincolo contrattuale che può essere costituito o sciolto in qualunque momento, è stata dichiarata nulla la clausola che attribuisce al datore di lavoro la facoltà di recedere dal patto (o abbreviarne la durata) dopo la cessazione del rapporto o all’atto della risoluzione dello stesso rapporto.