La rapida diffusione dell’Intelligenza artificiale spaventa milioni di lavoratori in giro per il mondo che temono di essere presto sostituiti da robot diversamente intelligenti.
L’Intelligenza artificiale ruba il lavoro?
Difficile dire se e quanto questa paura sia fondata perché mentre è certo che in un certo numero di attività lavorative le macchine diversamente intelligenti potranno sostituire le persone non è certo se e quanto rapidamente proprio lo sviluppo dell’intelligenza artificiale creerà nuove opportunità di lavoro.
C’è però un’altra preoccupazione relativa all’impatto dell’intelligenza artificiale sul mondo del lavoro più attuale, più concreta e assai meno diffusa. Soluzioni basate sull’intelligenza artificiale, infatti, sono utilizzate in misura crescente per supportare i datori di lavoro e le agenzie specializzate in diverse fasi del processo di selezione del personale dall’esame dei curricula, alle interviste.
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Si tratta, naturalmente, di strumenti utilissimi per aziende che ricevono centinaia di migliaia di curricula ogni anno e che hanno la legittima ambizione a rendere il processo di selezione quanto più efficiente possibile, riuscendo, auspicabilmente, a selezionare i candidati migliori.
Quanto l’Intelligenza artificiale discrimina
Ma, al tempo stesso, si tratta di soluzioni algoritmiche che, inesorabilmente, amplificano e moltiplicano di diversi ordini di grandezza pregiudizi e discriminazioni che appartengono, da sempre, ai processi umani di selezione del personale, in alcuni casi, peraltro, aggiungendo a vecchi fattori di discriminazione, fattori nuovi, diversi e spesso completamente irragionevoli. Non si tratta di un fenomeno nuovo.
Basti pensare che Amazon interruppe, proprio a causa di un incontrollabile rischio di discriminazione di genere, uno dei primi progetti di selezione algoritmica del personale nel 2015 dopo essersi avveduta che i propri algoritmi essendo stati addestrati a riconoscere i migliori candidati sulla base dei curricula della forza lavoro assunta nei precedenti dieci anni, manifestavano una straordinaria preferenza per gli uomini rispetto alle donne, presenti in numero decisamente inferiore nella propria popolazione lavorativa.
Insomma giacché storicamente l’azienda aveva assunto più uomini che donne, gli algoritmi si erano persuasi, che gli uomini fossero più adatti a lavorare in Amazon rispetto alle donne. Ciò che rende però oggi il problema più urgente di ieri è la diffusione di questo genere di soluzioni di intelligenza artificiale che, ormai, sono protagoniste indiscusse del mercato del lavoro.
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Secondo un recente studio della Harward Business School e di Accenture, negli USA, il 99% delle 500 aziende più produttive secondo il Forbs, utilizzerebbe gli algoritmi almeno nell’attività di preselezione dei curricula con risultati, peraltro, allarmanti in termini di rischio di discriminazione.
Le soluzioni in questione, infatti, oltre a perpetuare, molto spesso, antiche discriminazioni, essendo sviluppate con l’obiettivo prioritario di sfoltire quanto più possibile il numero dei curricula destinati a finire sulle scrivanie dei responsabili degli uffici delle risorse umane delle aziende, tenderebbero a essere più severi del ragionevole.
L’IA trova davvero il lavoro?
Ad esempio se in un curriculum per un posto di infermiere, pur essendovi esperienze e competenze straordinarie in relazione alla professione di infermiere, il candidato ha omesso di dar conto della propria capacità di utilizzare i più comuni software di videoscrittura (tipo Word di Microsoft) o di gestione della posta elettronica e tale indicazione è, invece, presente della offerta di lavoro, il curriculum verrà inesorabilmente bocciato senza prova d’appello.
Ma le soluzioni delle quali discutiamo vanno, ormai, ben oltre l’esame dei curricula che, pure, evidentemente, è sufficiente a privare qualcuno di un lavoro per il quale avrebbe tutti i requisiti. Un numero sempre crescente di società, in giro per il mondo, Europa e Italia incluse, utilizza servizi basati sull’intelligenza artificiale che oltre a preselezionare i curricula dei candidati gestiscono in sostanziale autonomia anche le prime interviste analizzando oltre al contenuto delle risposte degli aspiranti lavoratori anche una serie di parametri legati alla forma di tali risposte e alle emozioni che questa forma suggerisce.
Insomma si può rispondere correttamente a una domanda ma con un registro di voce o con un ritmo tale da persuadere l’algoritmo che gestisce l’intervista di essere troppo insicuri caratterialmente o, al contrario di non essere adatti al lavoro di squadra.
Per carità sono tutti fattori che hanno, da sempre, il loro peso anche in un’intervista lavorativa di tipo tradizionale ma che gestiti in maniera completamente automatizzata rischiano di privare, per errore, un numero enorme di persone dell’opportunità di un lavoro che sarebbero, invece, titolate e capaci di svolgere in maniera straordinaria.
Eppure il ricorso a queste soluzioni è inarrestabile. Il nuovo Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, da una parte, prova a limitare parzialmente il fenomeno almeno vietando il ricorso a soluzioni di riconoscimento emozionale e, almeno in Europa, la disciplina sulla privacy ammette il ricorso a decisioni completamente automatizzate solo laddove all’interessato venga almeno riconosciuto il diritti a richiedere una revisione umana.
E, tuttavia, navigando online nei forum dei responsabili delle risorse umane è difficile imbattersi in commenti nei quali ci si dichiari pronti a ribaltare per davvero il suggerimento algoritmico o, semplicemente, a prendere in esame curricula scartati dal sistema diversamente intelligente di preselezione.
D’altra parte ha poco senso, in una dimensione aziendale, scegliere di servirsi di una soluzione di preselezione algoritmica del personale, pagare, a peso d’oro, la relativa licenza d’uso e poi dedicare tempo e risorse all’esame di profili scartati dalla soluzione che si è scelto di adottare.
Insomma che l’intelligenza artificiale ci rubi il lavoro non è detto, ma che possa privarcene, invece, sembra quasi una certezza così come l’esigenza di sottrarre la questione alle sole regole del mercato il prima possibile.