Ieri ricorrevano sette anni dalla scomparsa di Stefano Rodotà, un Maestro, un giurista illuminato, una persona dotata di un’umanità straordinaria e di un’innata capacità di scrivere e parlare facendosi capire da chiunque e, soprattutto, di far innamorare la gente dei diritti.
È quasi banale scrivere che ci manca, che manca ha chi è chiamato a governare l’innovazione che avanza e a chi al compito di garantire che l’innovazione sia amplificatore di diritti, libertà e opportunità per la più parte della società e non il contrario.
E questo, naturalmente, è ancora più vero per chi si ritrova a lavorare in quel Garante per la protezione dei dati personali al quale lui ha dato i natali e del quale è stato primo inarrivabile Presidente. Difficile resistere alla tentazione di chiedersi che strada ci avrebbe indicato per governare l’impatto dell’intelligenza artificiale sulla società, fin dove ci avrebbe suggerito di lasciar fare all’industria e da dove ci avrebbe raccomandato di intervenire.
Ho provato a chiederlo, un po’ per curiosità, un po’ per fare un esperimento a ChatGPT, l’intelligenza artificiale di OpenAI che non si è sottratta e mi ha risposto così: “Stefano Rodotà, noto giurista e politico italiano, era particolarmente attento ai diritti umani e alla privacy nell’era digitale. Se fosse stato vivo oggi, probabilmente avrebbe enfatizzato i seguenti punti per governare l’intelligenza artificiale:
1. Centralità dei diritti umani: Rodotà avrebbe insistito che ogni regolamentazione dell’intelligenza artificiale (IA) dovesse porre al centro i diritti umani, garantendo che le tecnologie non ledano la dignità, la privacy e la libertà delle persone.
2. Trasparenza e responsabilità: avrebbe sottolineato l’importanza della trasparenza nei sistemi di IA. Gli algoritmi e i processi decisionali dovrebbero essere comprensibili e spiegabili, assicurando che ci sia sempre un livello di accountability per chi sviluppa e utilizza queste tecnologie.
3. Regolamentazione e governance pubblica: Rodotà probabilmente avrebbe promosso una forte regolamentazione pubblica dell’IA, suggerendo la necessità di normative chiare e strutture di governance che possano monitorare e controllare l’uso dell’IA, proteggendo gli interessi pubblici e prevenendo abusi.
4. Partecipazione democratica: avrebbe evidenziato l’importanza della partecipazione democratica nel processo decisionale riguardante l’IA. I cittadini dovrebbero essere coinvolti nelle discussioni su come queste tecnologie vengono sviluppate e implementate.
5. Educazione e consapevolezza: Rodotà avrebbe sostenuto programmi educativi per aumentare la consapevolezza pubblica riguardo all’IA, permettendo alle persone di comprendere meglio le implicazioni e i rischi associati a queste tecnologie.
6. Etica e valori sociali: Infine, avrebbe spinto per l’integrazione di principi etici e valori sociali nello sviluppo e nell’implementazione dell’IA, garantendo che queste tecnologie contribuiscano al benessere collettivo e non solo agli interessi economici.
Rodotà avrebbe quindi promosso un approccio equilibrato, che valorizza l’innovazione tecnologica ma senza compromettere i principi fondamentali di giustizia, equità e rispetto dei diritti umani.”.
La stessa idea che un algoritmo di intelligenza artificiale generativa si faccia interprete del pensiero di Stefano Rodotà è circostanza che non può non fare una certa impressione e che, evidentemente, rappresenta essa stessa occasione di tante domande che dovremmo porci.
Nessuno, infatti, probabilmente, ha mai chiesto a Rodotà cosa fare per governare l’avanzare dell’Intelligenza artificiale e, forse, anche chi ha avuto la fortuna di stargli più vicino, proverebbe un umano imbarazzo in un esercizio del genere, memore della statura dell’uomo, del giurista e dell’evangelista dei diritti.
Ma questo non vale per una chatbot le cui regole di ingaggio non conoscono imbarazzi. La risposta, come accade nella più parte dei casi, appare verosimile sebbene, in questo caso, si tratti, sfortunatamente, di una verosimiglianza non verificabile in mancanza dell’unica persona che potrebbe contestarla o confermarla per davvero.
Tuttavia, fingendo per un momento più nella dimensione dell’esercizio letterario che in quella scientifica, di dar credito alla prognosi di ChatGPT, probabilmente, si può dire che la strada che si sta percorrendo non è lontana da quella che verosimilmente Rodotà avrebbe suggerito salvo che in alcuni profili che – a prescindere dall’attendibilità della sintesi della creatura di OpenAI – varrebbe la pena non dimenticare. È il caso dell’esigenza di educare le persone a vivere con gli algoritmi e farle partecipare a scrivere le regole chiamate a governare l’intelligenza artificiale.
Qui, verosimilmente, ChatGPT ha più ragione che altrove: Rodotà ci avrebbe ammonito sul fatto che le regole per governare una rivoluzione come quella che stiamo vivendo non possono essere dettate prescindendo dal coinvolgimento delle persone e prima di coinvolgere le persone in un esercizio del genere è indispensabile educarle. Non è, sfortunatamente, quello che sta accadendo. Stiamo investendo molto di più nell’addestrare gli algoritmi a conoscere le persone che nell’educare le persone a conoscere gli algoritmi.
È la strada sbagliata. Come è sbagliato lasciare che pochi – e, anzi, pochissimi – stiano dettando, proprio attraverso gli algoritmi, in una deriva tecnocratica che minaccia le nostre democrazie le regole del gioco.
Ma che ChatGPT abbia o meno ragione nell’imputare questo pensiero a Stefano Rodotà, è egualmente certo, che, sin qui, i mercati e gli interessi economici hanno avuto la meglio sulla democrazia, i diritti e le libertà e che, sfortunatamente, sembra almeno lecito dubitare che la strada che i mezzi pesanti delle grandi fabbriche di algoritmi hanno imboccato conduca effettivamente al benessere collettivo.
Anzi, quel che si vede all’orizzonte, specie se si guarda all’incessante pesca a strascico anche di dati personali che si svolge ogni giorno online per addestrare gli algoritmi è che si sta andando verso un’annunciata tragedia, non solo e non tanto dei beni comuni, ma anche dei diritti personali e personalissimi degli uomini. È questo che accade, infatti, quando tessere preziosissime del mosaico dell’identità personale di miliardi di persone come i dati personali e le opere dell’ingegno, vengono fagocitate da un numero limitatissimo di soggetti e trasformati in loro asset commerciali e tecnologici.
Quanto ci manca Stefano Rodotà: il suo carisma, la sua personalità, la sua saggezza, la sua capacità di interpretare con la lente dell’umanità le regole del diritto e quelle della tecnologia ma, soprattutto, la sua straordinaria abilità nel trovare il punto di bilanciamento tra diritti solo apparentemente rivali e antagonisti come nel caso del diritto a innovare e quello alla privacy.
E però, nella disgrazia di non averlo più con noi, abbiamo la fortuna che ci la lasciato così tanto di lui che, forse, persino un algoritmo, può riuscire nell’impresa di suggestionarci con la sua visione su un futuro che non aveva visto ma, come sempre nella sua vita, certamente previsto e immaginato.
Grazie, Stefano.
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