Marco Varone, CTO nella software house modenese che sviluppa e istruisce intelligenze artificiali, non ha dubbi: «Non esiste una conoscenza inutile»
«Inutile studiare quattro volte le guerre puniche, serve cultura tecnica», ha detto qualche giorno fa il ministro alla Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, perpetrando l’immagine, forse un po’ stereotipata, che non ci sia spazio per le materie umanistiche nel mondo che vivremo, iper-connesso e iper tecnologico. Ma è davvero così? StartupItalia ha voluto chiederlo a chi lavora quotidianamente con algoritmi e software proprio per realizzare il mondo di domani, quello che fino a qualche tempo fa pareva esclusiva prerogativa di film distopici e romanzi fantascientifici. Ovvero a chi studia e progetta programmi in grado di comprenderci e capirci.
«La nostra realtà assume, dopo la pubblica istruzione e con le dovute proporzioni, il maggior numero di laureati in materie umanistiche», ci ha raccontato Marco Varone, CTO e co-fondatore di expert.ai, sofrware house modenese guidata da Stefano Spaggiari, altro co-fondatore ed Executive Chairman e dal CEO Walt Mayo.
Cosa fa expert.ai
La realtà, tutta italiana, sviluppa ed educa intelligenze artificiali che ‘andranno poi a lavorare’ per AXA XL, Zurich Insurance Group, Generali, The Associated Press, Bloomberg INDG, BNP Paribas, Rabobank, Gannett e perfino per una importante agenzia governativa statunitense che ha oggetto la sicurezza del Paese. «Ci hanno scelti – ha spiegato Varone – proprio perché il nostro software, essendo stato educato a comprendere una lingua complessa come la nostra, si trova a proprio agio con l’inglese e così gli affida migliaia di documenti da esaminare ogni giorno».
Professori per l’IA (che sappiano cosa siano le guerre puniche)
L’intelligenza artificiale, come quella umana, va svezzata, accudita e acculturata. Servono, insomma, professori per l’IA. Per questo aziende come expert.ai ricercano sempre più laureati in discipline umanistiche: «Stiamo assistendo a un curioso fenomeno – ha ammesso Varone – in cui lavori che fino a cinque anni fa nemmeno esistevano pescano da facoltà ritenute in declino, come storia e filosofia o statistica. Noi stessi, pur essendo una software house tradizionale, affianchiamo a figure tecniche un egual numero di knowledge engineer, ingegneri della conoscenza, formati nelle facoltà di lingue, lettere o di linguistica computazionale».
Non è perciò vero, come affermato dal ministro Cingolani, che sarebbe meglio lasciare nel cassetto il prima possibile alcune materie a favore di una maggior impronta tecnica nella nostra scuola: «Dobbiamo preparare l’IA a comprendere il linguaggio, perciò il mondo, la nostra storia e la nostra cultura: una intelligenza artificiale estremamente focalizzata su alcune materie rischierebbe di non comprendere i testi. Pensiamo, per esempio, a cosa accade quando l’IA si trova davanti un testo scientifico che però contiene, al proprio interno, delle metafore che rinviano ad altre materie: per capirle, proprio come noi, deve avere un adeguato bagaglio culturale».
«Non esiste una conoscenza inutile»
E questo perché, «proprio come il nostro cervello, negli anni della scuola, si sviluppa apprendendo una enorme quantità di nozioni provenienti da campi molto diversi, allo stesso modo le macchine devono poter avere accesso al maggior numero possibile di informazioni». Anche perché, sottolinea il CTO di expert.ai, «Non esiste una conoscenza inutile: a maggior ragione, dal momento che una IA può immagazzinare un maggior quantitativo di conoscenza in più rispetto al nostro cervello, perché dovremmo porle dei limiti?»
Insomma, se vogliamo che i bot con cui dialoghiamo quando usiamo i servizi online di banche e assicurazioni, o che mandiamo al diavolo quando chiediamo assistenza alla compagnia dei telefoni perché non abbiamo internet, siano sempre più in grado di comprenderci, non solo serve continuare a studiare le guerre puniche, perché più preparati saranno i professori dell’IA, più le intelligenze artificiali saranno performanti, ma addirittura dovremmo insegnarle perfino a loro. Anche se da expert.ai avvertono: «Prima di vedere bot empatici, sulla falsariga del film Her, passeranno almeno 20 anni, che nel nostro campo è un tempo enorme».
Meglio allora guardare all’immediato e riflettere se il nostro Paese, che ha dalla sua la fortuna di una lingua complessa che potrebbe istruire ottime IA applicate al linguaggio, è competitivo come meriterebbe. Secondo Varone «L’Italia, pur vantando qualche eccellenza, non è messa bene: mancano cultura, ecosistema e investimenti, perciò in tanti fuggono all’estero».
Qualche speranza potrebbe però arrivare dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, che dedica parecchi capitoli e altrettanti fondi al tema della digitalizzazione: «Se si riuscirà a fare almeno un terzo delle promesse – commenta il CTO e co-fondatore di expert.ai – saremmo già felicissimi, ma temiamo che dover spendere tanti soldi in un periodo così breve possa anche essere un grosso ostacolo al raggiungimento di risultati durevoli». Insomma, molto del futuro del comparto è nelle mani del governo che, al netto di alcune battute un po’ infelici, si compone comunque di intelligenze umane e non artificiali e questo, da solo, dovrebbe bastare a rassicurarci. O no?