La notizia della direttiva europea che cancella il segreto sui salari è arrivata come un sussurro, ma è certo che via via che diventerà operativa farà da scossa al sistema: il Parlamento europeo, del resto, ha voluto che fosse esattamente questo, una scossa, e l’ha progettata pezzo per pezzo perché il suo urto faccia saltare l’odioso modello degli stipendi impari, quel modello strabico per cui una donna che fa quello che fa un uomo è pagata meno, giusto perché un uomo non è. 

Il divario degli stipendi in Italia

Gli ultimi numeri messi sul tavolo quest’anno dall’INPS, che parla di “rilevanti condizioni di svantaggio” per le donne,  dicono che il divario degli stipendi è una ferita aperta: in Italia, le donne guadagnano in media oltre il 20% in meno degli uomini nelle attività manifatturiere; quasi il 24% in meno nel commercio, il 32% in meno nelle attività finanziarie. Altre statistiche restituiscono disparità meno acute, altre di più, poiché il calcolo del divario retributivo è complesso e abbraccia una catena di dimensioni. Del resto, ragionare sui tanti perché di questa ingiustizia obbliga a guardare in faccia la fittissima trama di concause – economiche, culturali, educative – che la sostiene da sempre. 

Ci può bastare ricordare l’incredibile paradosso della maternità e della paternità, confermato da una batteria di analisi, compresa quella dell’INPS: con l’arrivo di un figlio le lavoratrici perdono opportunità di reddito e carriera; i lavoratori, padri dello stesso figlio, ne guadagnano. Come se non bastasse, questo sistema strabico accumula e moltiplica nel tempo le penalizzazioni. E così le pensioni, che sono il riflesso della storia retributiva, scavano ancora di più quella voragine che è il divario tra donne e uomini: gli importi medi delle pensioni anticipate e di anzianità delle donne sono più basse del 25,5% di quelle incassate dagli uomini, gli importi delle pensioni di vecchiaia sono sotto del 44,1% (fonte: INPS). 

La Direttiva sulla trasparenza salariale

La direttiva in questione, la 2023/970 o Direttiva sulla trasparenza retributiva, punta a far saltare queste distorsioni, facendo saltare quel principio di segretezza che fino a oggi le ha coperte. Diciamo subito che non è vero che si avrà il diritto di conoscere lo stipendio di colleghi e colleghe: la direttiva, che deve essere operativa entro il 7 giugno del prossimo anno in ogni Paese UE, riconosce ai dipendenti il diritto di avere informazioni chiare sui criteri retributivi sin dalla prima assunzione e di conoscere le retribuzioni medie aziendali disaggregate per genere. Per le aziende prevede il dovere della trasparenza. Le aziende dovranno dunque comunicare i dati sul divario retributivo di genere, e anche adottare quelle modifiche organizzative necessarie per superarlo, usando criteri oggettivi e neutri sul piano di genere per determinare i livelli retributivi (l’intero pacchetto, non solo lo stipendio) e la loro progressione. Insomma, la direttiva europea non si limita a chiedere di parificare gli stipendi di uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, ma punta a scardinare uno a uno gli ingranaggi che finora hanno reso gli stipendi così impari.

Un motore di progresso per il sistema intero

Ogni volta che la parità tra uomini e donne fa un passo in avanti, fa un passo in avanti tutto il sistema, è questo il bello della parità: il suo essere un motore di progresso per l’insieme. Una donna che guadagna come merita è una professionista più soddisfatta, perché si vedrà riconosciuta e ricompensata per quello che vale. E se è più soddisfatta, sarà più motivata, e dunque, anche più produttiva per la sua azienda. La sua famiglia potrà contare su una maggiore sicurezza finanziaria e, quindi, potrà progettare un futuro più largo e più solido. Un’azienda che offre retribuzioni eque attirerà più facilmente talenti, migliorando, di conseguenza, competitività e reputazione. Potremmo guardare a oltranza, attraverso un ipotetico visore di realtà virtuale della parità, i rimbalzi virtuosi su scala via via allargata di salari finalmente agganciati al merito e non al genere, fino a vederli impattare sull’economia del Paese: studi citati dall’EIGE, l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, ci dicono che, per ogni punto percentuale di cui si riduce il gap salariale, il prodotto interno lordo di uno Stato sale dello 0,1%. 

Il beneficio di una conquista a vantaggio di una donna non è mai un beneficio individuale, è un’espansione geometrica moltiplicatrice: quando anche una donna prospera, lo fa tutto il sistema. Dobbiamo ricordarlo di più, scriverlo di più, dirlo di più una, dieci, cento volte al giorno, oggi che qualche Stato fa retromarcia sulla parità, derubricandola, nei casi migliori, a opzione, a obiettivo secondario, oggi che la parità rischia di passare per ostinazione ideologica, per ossessione di poche, quando non, addirittura, per l’avanzamento di una parte a danno dell’altra, oggi che polarizzazioni sistemiche provano ad acuire e irrigidire le distanze tra i generi. Non dobbiamo smettere di dirlo: la crescita, quando una donna avanza, è per l’intero sistema. Il costo della disparità, quando è frenata, anche.