Con il blocco delle attività di Foxconn e delle altre fabbriche che producono per tutti i principali brand, la crisi dei semiconduttori si aggrava, le scorte evaporano e i prezzi si impennano. Anche a causa dell’invasione russa in Ucraina
L’effetto è pesante perché riporta le lancette indietro nel tempo. Precisamente di due anni, quando la Cina bloccò ogni attività per battere la diffusione dei contagi di Covid-19. La tolleranza zero con conseguente lockdown deciso da Pechino appena il numero dei contagi è in rialzo ha permesso al paese di uscir fuori dall’emergenza sanitaria prima di molti altri stati del mondo occidentale. Con l’aumento dei casi legati alla variante Omicron, che nelle ultime settimane ha portato al collasso le strutture sanitarie della ricca Hong Kong, tornare alla strategia zero-Covid è però un duro colpo anche per i cinesi. E per il resto del mondo, perché quando si fermano le fabbriche nel paese del dragone le conseguenze colpiscono tanti settori industriali, legati a doppio filo alla produzione cinese.
A 24 ore dai poco più di 1.800 contagiati di Covid-19 riscontrati nel paese dalla Commissione Nazionale della Sanità, che è il numero giornaliero più alto degli ultimi due anni, è scattato il piano di difesa. Cioè lo stop di “tutte le attività non necessarie”, con gli inviti all’intera popolazione di non muoversi da casa, la chiusura delle scuole e la sospensione del trasporto pubblico in molte città, con il via libera per continuare solo a strutture mediche, farmacie e mercati essenziali, mentre per i ristoranti sono previsti soltanto ordini online e consegne a domicilio. Due delle città che maggiormente risentono dello stop obbligato sono Shanghai e Shenzhen, rispettivamente l’hub finanziario e quello tecnologico della Cina. Quest’ultima è la città salita alla ribalta per la nascita e conseguente espansione sui mercati globali di Huawei, ma anche il quartier generale di DJI, Oppo, ZTE e Tencent. Una metropoli con oltre 17 milioni di residenti, che insieme a Pechino e Shanghai contribuisce a una bella fetta della crescita del Pil e del paese.
Uno dei punti cruciali di Shenzhen è il suo porto, dove alcune aziende hanno sospeso le operazioni nei rispettivi magazzini in loco. Per ora a tempo determinato, si parla di alcuni giorni, ma il precedente della primavera scorsa, quando le attività portuali furono bloccate con il diffondersi dell’epidemia, rappresenta uno spauracchio, con i ritardi delle spedizioni trasformate in minori disponibilità di dispositivi e conseguenti aumenti di prezzo. In chiave tecnologica, Shenzhen è anche e soprattutto la città di Foxconn, che qui ha due dei suoi più grandi stabilimenti dei 13 presenti in nove centri cinesi (a Longhua, che con un campus di oltre 3 chilometri quadrati e diverse centinaia di migliaia di lavoratori è il più esteso in assoluto, e Guanlan). “In conformità alle politiche Covid-19 del governo locale, dal 14 marzo Foxconn sospende i lavori a Shenzhen“, si legge nelle nota della società conosciuta per essere il principale fornitore di Apple, oltre che di un gran numero di altri colossi del mercato, come Amazon e Google. La società, la cui denominazione è Hon Hai Precision Industry Co Ltd, ha aggiunto che la sospensione è prevista, per ora, fino a metà settimana, con la possibilità di mettere in funzione sistemi di backup negli impianti, al fine di continuare almeno in parte le operazioni.
La chiusura degli stabilimenti non risparmia nessuno, incluse le altre aziende taiwanesi come General Interface Solution, Unimicron e Sunflex, specializzate nella produzione di pannelli e circuiti stampati destinati a tutti i più popolari brand del comparto hi-tech. A loro il governo cinese ha concesso la possibilità di proseguire i lavori se in grado di creare una bolla per i dipendenti, come accaduto nel corso delle recenti Olimpiadi Invernali di Pechino. Anche perché il blocco appesantirà una situazione già complessa per il settore. Come ha spiegato alla Reuters Paul Weedman, titolare della società di consulenza Victure Industrial a Shenzhen, le restrizioni hanno innescato un effetto a catena che va oltre la metropoli e ricade sui clienti internazionali. “Avere una fabbrica di centinaia di persone che all’improvviso non possono più fare niente, significa non poter evadere gli ordini esistenti e non poterne accettare di nuovi. Con un impatto che non è di poche settimane ma di 3-6 mesi“.
Tenuto a mente che nel calderone finiscono tutti i settori legati a chip e altre componenti chiave, a partire dall’industria automobilistica, come dimostrano le interruzioni delle operazioni negli impianti di Changchum del gruppo FAW, che ha stretto partnership con Toyota e Volkswagen, l’incubo Covid-19 in Cina si va ad aggiungere all’invasione russa dell’Ucraina, due fattori destinati a peggiorare le condizioni del settore tecnologico. Alle forniture di chip, che ancora scontano i ritardi dovuti all’apice del periodo pandemico globale, il conflitto in corso nell’Europa dell’Est comporterà implicazioni per la disponibilità di neon di alta qualità, elemento cruciale per i semiconduttori, la cui produzione dipende per il 70% dall’Ucraina. Considerata l’impennata dei prezzi con aumenti fino al 600% durante il conflitto in Crimea del 2014, si può comprendere come anche quest’altro fronte si rivelerà un ostacolo pesante per le aziende e, quindi, in ultimo per i consumatori, chiamati a fari i conti con scorte ridotte all’osso e dispositivi sempre più costosi.