Molte aziende cambiano l’approccio strategico passando da un’organizzazione piramidale a un’organizzazione circolare e multilivello
Quando parliamo di organizzazioni gerarchiche facciamo un grande viaggio nella storia. Precisamente ai tempi dell’antico impero romano. Il primo ad introdurre un sistema piramidale fu infatti Caio Mario. E’ sua la riforma dell’esercito che introduce per la prima volta una struttura a piramide. Vertici, ranghi e soldati. La stessa struttura che ancora oggi è utilizzata in ambito militare. Anche la società egizia aveva assunto il sistema piramidale come elemento fondante della sua cultura e del suo culto.
Ma cosa ha portato anche le grandi aziende, negli anni, a mutuare in parte questo modello?
L’esigenza di “controllo”, da una parte, la necessità di “definizione” dall’altra. L’efficacia del sistema piramidale tuttavia funziona solo in un contesto di grande stabilità sociale, economica e politica. Se l’ambiente intorno a noi inizia a cambiare velocemente, come accade oggi, il sistema piramidale mostra i suoi limiti.
Su queste basi stanno emergendo nuove teorie e nuovi approcci per passare da un’organizzazione piramidale a un’organizzazione circolare e multilivello capace di rispondere alle grandi sfide imposte dai cambiamenti globali: TEAL, Holacracy, Scrum solo per citarne alcune.
Questi nuovi approcci, principalmente nati in ambito IT e ora diffusi in diversi contesti organizzativi, sono fortemente strutturati e non escludono affatto il concetto di gerarchia, ma lo rinnovano e lo completano grazie alla introduzione di alcuni principi che favoriscono il pieno coinvolgimento delle persone.
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Prima di cominciare… perché esisto?
Da sempre il sistema piramidale ha assicurato uno stato di sicurezza ai manager in termini di controllo. Se l’ambiente intorno a noi cambia però, non può più essere controllato da una sola persona perché troppe cose accadono allo stesso tempo.
Essere agili in un mondo che cambia esponenzialmente, improvvisamente e in direzioni imprevedibili, vuol dire rivedere il modo di lavorare insieme e i processi decisionali.
Uno dei principi chiave di questi nuovi approcci è il concetto di “purpose”, che in italiano possiamo tradurre come “la ragion d’essere” ovvero il fine ultimo dell’esistenza di un team o di un progetto. Perché il mio team esiste? Qual è la ragion d’essere dell’azienda per cui lavoro? Un esercizio importante e utile che definisce una bussola per allineare l’organizzazione del lavoro con le competenze delle persone, e orientare il processo decisionale. Una sorta di rivoluzione copernicana se pensiamo alle dinamiche che spesso sottendono le decisioni prese in azienda.
Ma che ci faccio io qui?
Un altro concetto chiave di questo nuovo approccio al lavoro consiste nella chiarezza dei ruoli. Chi collabora con chi, cosa ci si aspetta gli uni dagli altri, quali sono le responsabilità di ciascuno. Spesso infatti le tensioni nascono dalla mancanza di chiarezza o dalla mancanza di corrispondenza tra ciò che si fa e ciò che ci sia aspetta io faccia.
Ma come si definiscono i ruoli?
La risposta è sorprendentemente semplice. E’ necessario partire dal “purpose”. Di quali ruoli ho bisogno per realizzare pienamente la mia “ragion d’essere”. Ed eccome come la Comunicazione si è ridefinita partendo dal proprio purpose.
La definizione di ruoli chiari porta con sé innumerevoli e tangibili benefici: fornire una piena delega per favorire decisioni quanto più possibile autonome ed evitare ritardi, far seguire azioni nel più breve tempo possibile, lavorare in self–organization.
Riunioni sì ma efficaci!
Un altro beneficio di una organizzazione chiara con un obiettivo condiviso è migliorare la qualità delle riunioni, cioè il momento in cui tutti si incontrano e discutono degli obiettivi.
La riunione perfetta, in ogni caso, dipende dal team.
Di cosa il team ha bisogno?
Cosa serve al team per lavorare in modo efficiente? Ogni meeting ha bisogno di essere “disegnato” a seconda dell’oggetto di cui si discute. In alcune riunioni, più tattiche, si discutono gli obiettivi della settimana, ci si aggiorna sui progetti in corso, quindi si cerca di capire quali sono le tensioni che impediscono di procedere sulle varie progettualità definendo un avanzamento se non è possibile trovare subito la soluzione. In altre riunioni si delinea la strategia ad ampio raggio, le priorità dei prossimi tre o sei mesi. Altri tipi di meeting ancora servono a ridefinire il modo di lavorare insieme e a verificare che i ruoli che abbiamo disegnato siano ancora validi, viceversa se servano aggiustamenti.
Obiettivi differenti, richiedono meeting differenti.
Ma, di sicuro, alcune regole possono facilitare qualsiasi tipo di meeting per renderlo realmente efficiente. Innanzitutto, il numero stesso di persone: non più di dieci.
E poi, l’assegnazione di due nuove figure: il facilitatore e il segretario.
Quella del facilitatore è una figura importante che si assicura, per la durata del meeting, che la discussione sia di qualità.
Spesso nei meeting partecipano diverse persone e, molto spesso, in un contesto confusionario il livello di attenzione generale è basso e questo porta ad una scarsa qualità delle conversazioni, che porta a inefficienza dell’incontro stesso. Per questo motivo il facilitatore non può essere il leader, né il manager. Perché questo significherebbe troppo potere in mano alle stesse persone che già hanno in carico la presa di decisioni importanti come budget e strategie. Una persona del team può essere anche “istruita” per diventare il facilitatore durante i meeting e diventare una figura di supporto dunque che assicura continuamente la buona partecipazione, l’efficienza e la qualità dei contenuti.
A questa figura si affianca quella del “segretario”, un componente del team che prende nota delle decisioni e dei principali obiettivi. Alla fine della giornata, ognuno può essere eletto — in modi differenti — ed avere il ruolo di facilitatore o segretario in differenti meeting. E’ fondamentale però mantenere questa struttura costantemente.
Come iniziare un percorso di questo tipo
Proprio per la sua natura, difficilmente questi nuovi modelli si applicano dall’alto verso il basso, in maniera piramidale. Che sarebbe quasi un ossimoro. Piuttosto funzionano molto bene se applicata a piccoli team di progetto che diventano naturalmente propulsori di un cambiamento in azienda. Così la cultura si diffonde per osmosi attraverso l’organizzazione, favorendo un’evoluzione organica. La sfida è proprio quella di interpretare questi nuovi modelli organizzativi e farli coesistere nell’ecosistema aziendale.
L’articolo prende spunto da una intervista a Mickael Drouard, co-founder di Fabric ed è stato realizzato in collaborazione con Barbara Tornese